Viviana Faschi è assegnista di ricerca in Filosofia morale presso l’università di Verona dove è membro del centro di ricerca Tiresia per la filosofia e la psicoanalisi e della redazione della rivista Phi/Psy (ETS). Con Orthotes ha curato il volume collettaneo L’insondabile decisione dell’essere. Filosofia e psicoanalisi dinnanzi alla causalità della follia (2020). Nel 2014 ha pubblicato con l’editore Nem la raccolta di prosa poetica Lo spleen di Milano (premio Giusti opera prima, premio Camaiore proposte).
Senso e impaniamento sintattico
Se vogliamo considerare la follia una malattia, allora si tratta di una malattia del linguaggio, non di una malattia del cervello. Questo è l’asserto fondamentale della psicoanalisi lacaniana, che non muterà col passare dei decenni: il problema è un problema di natura significante. Più precisamente è un problema di senso per il soggetto.
Qual è il misconoscimento principale in cui si imbatte lo psicotico? Il fatto che egli non riconosca i propri deliri, le proprie allucinazioni, come proprie, e però che sappia con certezza che «tutti questi fenomeni […], quale che sia l’estraneità e la stranezza con cui li vive, lo riguardano personalmente […]. E quando ogni mezzo per esprimerli viene a mancargli, la sua perplessità ci manifesta ancora in lui una beanza interrogativa: cioè la follia è tutta vissuta nel registro del senso».
Cos’è esattamente questo senso di cui si parla, se non un’estrema e variegata polifonia di possibili rimandi ai quali una parola è traghettata oppure, viceversa, un solo granitico rimando che la pietrifica. L’esempio che fa Lacan è quanto mai ricco come se il senso potesse risuonare alla maniera di un’onomatopea: «La parola non è segno ma nodo di significazione», cominciamo da qui e già vediamo un crocevia, un intrecciarsi di differenze, una molteplicità di direzioni.