Viviana Faschi laureata in Storia del teatro e in Filosofia, è dottoranda in Filosofia presso l’Università degli studi dell’Insubria con una ricerca sul tema della causalità della follia. Il suo ambito di ricerca si colloca a cavallo tra la filosofia di Nietzsche, Deleuze e la cibernetica di Bateson da un lato, e la psicoanalisi lacaniana dall’altro.
Senso e impaniamento sintattico
Se vogliamo considerare la follia una malattia, allora si tratta di una malattia del linguaggio, non di una malattia del cervello. Questo è l’asserto fondamentale della psicoanalisi lacaniana, che non muterà col passare dei decenni: il problema è un problema di natura significante. Più precisamente è un problema di senso per il soggetto.
Qual è il misconoscimento principale in cui si imbatte lo psicotico? Il fatto che egli non riconosca i propri deliri, le proprie allucinazioni, come proprie, e però che sappia con certezza che «tutti questi fenomeni […], quale che sia l’estraneità e la stranezza con cui li vive, lo riguardano personalmente […]. E quando ogni mezzo per esprimerli viene a mancargli, la sua perplessità ci manifesta ancora in lui una beanza interrogativa: cioè la follia è tutta vissuta nel registro del senso».
Cos’è esattamente questo senso di cui si parla, se non un’estrema e variegata polifonia di possibili rimandi ai quali una parola è traghettata oppure, viceversa, un solo granitico rimando che la pietrifica. L’esempio che fa Lacan è quanto mai ricco come se il senso potesse risuonare alla maniera di un’onomatopea: «La parola non è segno ma nodo di significazione», cominciamo da qui e già vediamo un crocevia, un intrecciarsi di differenze, una molteplicità di direzioni.