Amare o essere? Amare rinunciando a essere, come colui che accetta di essere tutto amore, o rivoltolarsi nello spessore dell’essere rinunciando all’amore? Questo dilemma insolubile, pur non comportando nessuna soluzione logica, ci lascia però delle scappatoie. Per rendere possibile l’impossibile, per sfuggire all’alternativa a cui lo costringe la sua contraddizione vissuta e a cui lo vincola il suo paradosso interiore, l’essere al tempo stesso morale e finito, l’essere finito-morale dispone in particolare di quattro alibi: in primo luogo, la buona media, che è soprattutto un’astuzia e non implica direttamente l’ambiguità, ma piuttosto la mescolanza e il pressappoco; in secondo luogo, il faccia-a-faccia immobile, inchiodato al suolo dalla neutralizzazione reciproca dell’amore e della morte, del dovere e dell’essere, faccia-a-faccia che alla fine lascia l’ultima parola proprio alla morte, che non è una scappatoia ma al contrario un blocco, e che è indirettamente un modo di eludere qualsiasi soluzione…
Vladimir Jankélévitch
Vladimir Jankélévitch (Bourges 1903-Parigi 1985), filosofo ebreo di origine russa naturalizzato francese, ha insegnato alla Sorbona dal 1951 al 1977. La sua opera, tra le più originali del Novecento, si situa all'incrocio dei linguaggi dell'etica, della musica e dell'antropologia. Fra le principali traduzioni italiane dei suoi lavori, La musica e l'ineffabile (Napoli 1983; e poi Milano 1998), L'ironia (Genova 1987), Il Non-so-che e il Quasi-niente (Genova 1987 e 2011), La morte (Torino 2009), le interviste raccolte da Béatrice Berlowitz in Da qualche parte nell'incompiuto (Torino 2012), Il puro e l'impuro (Torino 2014) e L'avventura, la noia, la serietà (Torino 2018).