La buona media

Amare o essere? Amare rinunciando a essere, come colui che accetta di essere tutto amore, o rivoltolarsi nello spessore dell’essere rinunciando all’amore? Questo dilemma insolubile, pur non comportando nessuna soluzione logica, ci lascia però delle scappatoie. Per rendere possibile l’impossibile, per sfuggire all’alternativa a cui lo costringe la sua contraddizione vissuta e a cui lo vincola il suo paradosso interiore, l’essere al tempo stes­so morale e finito, l’essere finito-morale dispone in particolare di quattro alibi: in primo luogo, la buona media, che è soprat­tutto un’astuzia e non implica direttamente l’ambiguità, ma piuttosto la mescolanza e il pressappoco; in secondo luogo, il faccia-a-faccia immobile, inchiodato al suolo dalla neutralizza­zione reciproca dell’amore e della morte, del dovere e dell’esse­re, faccia-a-faccia che alla fine lascia l’ultima parola proprio al­la morte, che non è una scappatoia ma al contrario un blocco, e che è indirettamente un modo di eludere qualsiasi soluzione; in terzo luogo, la sublimazione ascetica, che cerca una risposta alla domanda “fin dove” non già nel pressappoco, ma nell’infinitesimale e nel quasi-niente; infine, il battito alternativo, che si potrebbe paragonare a un fenomeno vibratorio. Fra questi quattro alibi, il primo, sia esso razionale o approssimativo e brancolante, somiglia a volte a una soluzione. Il secondo – l’amore inchiodato al suolo dall’essere, l’essere sacrificato sul posto all’amore, l’una e l’altra cosa simultaneamente – è il con­trario di una soluzione, giacché tiene fermo al blocco, ossia al­la generale immobilizzazione. Soltanto il terzo è una vera scappatoia, ma non abusiva: è un’evasione nell’infinito. Il quarto, per così dire, è un’evasione sur place.

Il primo alibi intende dispensarci dall’opzione vertiginosa im­postaci da un’alternativa senza sbocco: da lontano la neutralità può sembrare una giustapposizione; da lontano e all’ingrosso, “né l’uno né l’altro” (neutrum), ossia l’indifferenza, da un lato, e “l’uno e l’altro” dall’altro, sembrano quasi indiscernibili o almeno equivalenti… Dopo l’alternativa lacerante del tutto-o-niente, l’ottimismo riprende a sperare: forse ci sono ancora dei bei giorni e un buon avvenire per quella che si chiama buona media. L’ottimismo pretende così di installarsi nell’optimum di un giusto mezzo situato a metà strada fra l’essere e il non-essere. Per ridurre la sproporzione fra le nostre risorse fisiche, che sono limitate, e l’esigenza morale, che è infinita, occorrerà forse attenersi all’idea di una mezza dedizione, o addirittura di un mezzo eroismo? Un eroismo ugualmente lontano dai due estremi: ecco una trovata non meno ingegnosa che assurda! Calcolare questo giusto mezzo, misurare l’equidistanza, dosare un amalgama, mescolare piacere e saggezza, come ci propone il Filebo: ecco apparentemente dei modi differenziati di risol­vere un problema insolubile. Confrontando la filosofia del giu­sto mezzo col massimalismo morale, siamo costretti ad ammet­tere che se questo giusto mezzo, nella misura in cui è “giusto”, ossia normativo, è esso stesso una specie di massimo, il “mas­simalismo” a sua volta non si strappa mai radicalmente dal campo della finitezza e dell’intermediarità. Aristotele, teorico della medietà e del giusto mezzo (μεσότης), mira al centro: poi­ché non gli manca lo spirito intuitivo.

Ma la buona media è ancor più lontana dagli estremi e dall’estremismo del giusto mezzo, giacché essa non è neanche giusta! Né giusta né, so­prattutto, acuta…

Buona o cattiva, la buona media è sempre media – statisticamente e approssimativamente media – media o piuttosto mediana! La buona media, adeguata all’impuro e al compromesso, non riesce mai ad aprire il grande varco che le potrebbe permettere di trascendere definitivamente questo mondo di relatività e mediocrità. L’idea stessa di un compro­messo “posologico” fra il piacere e l’esigenza morale sottinten­de la necessaria finitezza del dovere: la domanda quanto? (πόσον) presuppone in effetti che il godimento egoista e il dovere infinito siano paragonabili e commensurabili e, per dire tutto, fondamentalmente omogenei; sullo stesso piano e dello stesso ordine; reperibili alla medesima scala. Giacché si presume che siano entrambi quantificabili. Qualche goccia d’altruismo col contagocce in un oceano di egoismo per comporre la miscela… ovvero, per essere più giusti, e di conseguenza più normativi, un poco di essere, un poco di amore; tanto dell’uno quanto dell’altro! Mescolare bene. Vi si farà notare, è vero, che dopo tutto la simbiosi dell’anima e del corpo è anch’essa un com­plesso di tendenze discordanti e persino contraddittorie, e che questo composto è tuttavia vissuto come una cosa semplice, che questa doppia vita è una sola e medesima vita, che questa cacofonia viene incomprensibilmente percepita, nonostante le sue dissonanze, in un unico accordo… Ma ciò vuol dire dimen­ticare fino a che punto questa contraddizione psicosomatica così paradossalmente vitale sia in definitiva poco vitale – poco vitale e invivibile; invivibile e al tempo stesso derisoriamente vitale! Nonostante l’ambivalenza, o piuttosto a causa sua, gli incompatibili restano fondamentalmente incompatibili; prima o poi la morte metterà crudelmente a nudo l’inevitabile fragili­tà di questa instabile stabilità. Questa situazione tesa, lacerata, drammatica, somiglia a quella di due congiunti che non possa­no vivere né insieme, né separatamente, né l’uno con l’altro, né l’uno senza l’altro, e che si respingano attraendosi; essi non possono scegliere che fra due tipi di infelicità. Non è questa, forse, una situazione passionale? Situazione che non è mai re­golata da un contratto, e che dunque non è affatto riposante. E questo vale a maggior ragione dal punto di vista morale, se è vero che la morale esclude per definizione qualsiasi neutrali­tà. Né con né senza. Né l’uno né l’altro! Ogni patto, in questo campo, è un raggiro, ogni giustapposizione è un inganno e un miraggio. «Poiché tu sei tiepido (χλιαρός) e non sei né bollen­te né freddo, ti vomiterò dalla mia bocca». Un impenetrabile tepore in ogni conflitto non è forse semplice indifferenza, de­primente adiaforia? È a patto d’essere lacerante e invivibile che la simbiosi è vissuta!

Tratto da Vladimir Jankélévitch, Il paradosso della morale, Orthotes 2020

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