La biorobotica e la fabbricazione digitale dimostrano quanto convergenti siano le dimensioni della vita e della tecnologia. Siamo talmente immersi in mondi artificiali da esserne sostanzialmente modificati. Esigiamo ausili artificiali per essere autentici, per potenziare il nostro ego ma anche per allontanare la paura della sofferenza. Presto condivideremo il mondo con oggetti che comunicheranno tra loro in maniera indipendente da noi, e faremo esperienze di vita all’interno di realtà aumentate, utilizzando macchine scomponibili in singole parti che potranno essere riadattate a nuovi scopi. Si accorcerà così la distanza tra materia e valori, e i valori di una società saranno sempre più incorporati nelle realtà che fabbricheremo. In tutto ciò cambia anche l’idea di vulnerabilità che ci accompagna costitutivamente: non saremo più vulnerabili alle forze della natura oppure alle conseguenze imposte all’uomo da uno sviluppo tecnologico incontrollato bensì – nella futura società dello human enhancement tecnologico – diventeremo soprattutto vulnerabili agli schemi normativi e ai modelli sociali di giudizio di cui ci doteremo per mediare tra natura e tecnologia. È questo un livello superiore di implicazione etica che l’autore chiama tecno-vulnerabilità, per gestire il quale viene proposta una teoria etica che ruota attorno a una gradualità di giudizio sul potere della tecnologia, e che si basa su quattro categorie normative: usabilità, accettabilità, permissività e sostenibilità.
La tecno-vulnerabilità
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni ha decretato l’uscita di scena del soggetto razionalistico della prima modernità, padrone assoluto qual era delle proprie facoltà di giudizio, di azione e di linguaggio, nonché punto di riferimento del reale. Fenomeni come la realtà aumentata, l’Internet delle cose, la biorobotica, dimostrano quanto l’infosfera e la condizione di cyborg naturali si siano ormai radicalmente interposti tra l’essere umano e la realtà circostante. Si pensi soltanto a come la ricerca medica abbia condizionato fortemente l’espressione e il funzionamento del corpo biologico, oppure a come nella società molte delle esperienze che facciamo – nutrirci, spostarci, informarci, ecc. – non sarebbero possibili senza l’intervento di talune tecnologie. Il cogito cartesiano non è più il fulcro che rende esperibile il pensabile. Infatti, sia che si intenda la realtà come un insieme di enti ontologicamente altri rispetto a noi, oppure che la si voglia trattare come realtà altamente secolarizzata e storicizzata, dipesa dall’agire umano, la tecnologia determina in ogni caso molte delle condizioni di possibilità di questi due resoconti del reale.
Questa lenta fuoriuscita filosofica ha aperto però nuovi spazi di possibilità e di riflessione all’interno della cultura tecnologica dominante, la stessa che si è formata nell’arco di molti secoli e che ha inteso la tecnica sostanzialmente come una razionalità di tipo finalistico applicata al reale per modificarlo e trasmettergli significati e strutture funzionali alla propria natura. In altre parole, penso che proprio oggi, epoca in cui la tecnologia ci sembra più pervasiva e colonizzatrice di molti ambiti della vita umana, abbiamo l’occasione di ridefinirne ruolo e senso, cercando di liberarla e ripristinare la sua essenza originaria di attività della vita.