Viola Carofalo è ricercatrice in Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si occupa dei temi dell’etica, del riconoscimento, della costruzione dell’identità nei contesti interculturali. Ha scritto sul pensiero di Frantz Fanon (Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento, Milano-Udine 2013), sul rapporto tra filosofia, letteratura e alterità in J.M. Coetzee (Dai più lontani margini. J.M. Coetzee e la scrittura dell’Altro, Milano-Udine 2016), sulla riflessione filosofica di Barthes, Brecht, Cassirer, Devereux, Fraser.
Pensare con le mani
Nell’indagare la filosofia del lavoro di Weil non si può che tener conto della centralità all’aspetto biografico, della sua esperienza in fabbrica, nel 1934. Impreparata, fisicamente e forse anche emotivamente, alla durezza delle mansioni che le vengono assegnate, Weil per otto mesi sceglie di sperimentare l’oppressione del suo tempo per poterla meglio esaminare, raccontare. Nulla è più avvilente del lavoro in officina, è necessario fare qualcosa perché le condizioni del lavoro operaio cambino, perché il peso che grava sui lavoratori venga alleggerito. L’assenza di gioia, l’oppressione del lavoro, non sono solo il segno, sono anche la causa di un degradarsi complessivo dell’umano.
La forza è la materia e la sua resistenza – che non va intesa né meramente come ostacolo concreto, né come elemento trans-fisico –, è la necessità, la prova tangibile che noi non siamo Dio, del nostro limite, dell’illusione della nostra onnipotenza, mediante cui noi avvertiamo il nostro essere creature. Nel lavoro, l’incontro con la verità della durezza della materia diviene inevitabile, si è creature, e lo si sa, perché la materia è lì, esiste e resiste ai nostri sforzi. In questo suo fornire un limite, resistere, la forza è, aristotelicamente, violenza, costituisce l’ostacolo che costringe il movimento alla deviazione.