Umberto Galimberti, Avventure e disavventure della verità

Nell’indagare la verità e la sua storia, Galimberti risale anzitutto alla prima fonte della nostra cultura, ai greci, che ci hanno tramandato una verità legata alla visibilità, anche se non immediatamente sensibile, com’è indicato da Platone col termine ‘idea’. Ma qui inizia anche la sciagura del corpo nel mondo occidentale e la scissione, sempre più pronunciata, tra ciò che è inteso come anima e il corpo. Nell’età della tecnica la verità cambia ancora: vero è ciò che ha successo, che produce risultati, perché a contare sono gli effetti di realtà, non la redenzione o il sapere, ma unicamente quel che funziona. Al giorno d’oggi non abbiamo però nemmeno più la capacità di prevedere gli effetti delle nostre azioni e la tecnica (che non è la tecnologia) è diventata la visione e il mondo stesso in cui l’uomo vive. Un mondo in cui il concetto di verità non è ciò che fonda l’agire ma una sua imprevedibile conseguenza.

La cultura greca, che è cultura della luce, ritiene che allo scenario della luminosità appartenga anche Dio, cioè il theos (θεός). In effetti tutte le parole che in greco iniziano con theà (θεα), che è la forma femminile di theos, vogliono dire “visione”. Per esempio “teatro” è ciò che si dispiega e si apre (lo scenario). Non a caso il teatro era sempre vicino al tempio, e non era affatto un luogo di divertimento, ma un luogo molto sacrale dove si dibattevano i problemi fondamentali della vita umana e della vita di società. Oppure la parola “teorema”, che indica il “rendere visibile” alla fine quello che nell’enunciato era implicito. E poi ancora: theos, Zeus, deus, dies, il giorno, la luce. Questa è la cultura greca.

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