Diego Arturo Giordano, Verità e paradosso in Søren Kierkegaard. Una lettura analitica

Secondo Søren Kierkegaard alla luce del rapporto, intimo e personale, con Dio è possibile accedere alla verità. L’importanza del rapporto è data dal fatto che Dio non solo è la verità in quanto tale, ma la condizione che permette la disponibilità della verità all’uomo. In tale movimento relazionale le solide categorie che strutturano e sorreggono il pensiero devono fare i conti con un’opzione di senso istituita dalla fede che, destabilizzando ogni atto noetico-conoscitivo razionale e culturale, conduce alle porte del paradosso. L’operazione che Kierkegaard riesce a compiere è quella di calare il paradosso, che è il paradosso della fede, nella verità, che è la verità del singolo nel proprio rapporto a Dio. La fede porta alla verità unicamente se è la verità a generare e garantire l’atto di fede.
Questo libro è diviso in due sezioni: una prima parte d’introduzione storica alla vita e al contesto in cui Kierkegaard operò, e una seconda parte costituita da un saggio su due nozioni centrali nel pensiero del filosofo, quelle di verità e paradosso, analizzate sia dal punto di vista teoretico-ermeneutico, in dialogo con Nietzsche e Heidegger, sia da quello della filosofia analitica, con particolare riferimento ad alcune operazioni concettuali compiute da Frege, Russell e Wittgenstein.

Una problematica coerenza

A prima vista la scrittura di Kierkegaard non sembra particolarmente ostica, come invece lo è quella di altri filosofi a lui contemporanei, per esempio Hegel o Schelling. D’altronde il fascino esercitato dal filosofo danese su generazioni di lettori è stato almeno in parte frutto, oltre che di «vecchi abusati motivi di precorrimento esistenzialistico», dell’immediata capacità comunicativa derivante dall’utilizzo di una prosa scorrevole e discorsiva. Il rifiuto volontario sia dell’ardua terminologia filosofica che della difficoltosa costruzione argomentativa propria dei “professori di filosofia”, dimostrano come Kierkegaard abbia intrattenuto con l’arte dello scrivere un rapporto del tutto particolare, primo indizio dell’avversione da lui nutrita nei confronti dei vacui intellettualismi. Tuttavia, benché opere quali il Diario del seduttore o gli Stadi sul cammino della vita possano esser lette senza una previa comprensione di specifiche categorie filosofiche, non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparente comprensibilità degli scritti kierkegaardiani. Le difficoltà sono tanto più grandi quanto meno evidenti, e si intensificano esponenzialmente di fronte a un’opera che «se è vero che mostra spesso con luce solare come si apre e cosa vuole, non si vede sempre e altrettanto chiaramente come si chiuda e cosa decida».

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