Evelina Praino, L’uso di sé. Archeologia della forma-di-vita

Tra i tanti concetti tratti dall’elaborazione filosofica di Giorgio Agamben, quello di “forma-di-vita” è tra i più noti; ma è anche quello su cui maggiori sono le incertezze rispetto al suo significato. Con “forma-di-vita” si è soliti intendere la possibilità di una vita alternativa a quella scissa dai dispositivi governamentali: ma come pensare questa possibilità? Come riunire ciò che è stato diviso? E come praticare una vita inseparabile dalla sua forma? Per rispondere a queste domande, Archeologia della forma-di-vita applica con rigore filologico il metodo archeologico per indagare l’origine della lemma e chiarire così le tappe di una riflessione lunga e tortuosa, fatta di abbozzi, ripensamenti, punti ciechi e conclusioni lasciate abbandonate. Ed è così che l’indagine sui lavori giovanili di Agamben rivela come – sin dalle ricerche sull’infondatezza del linguaggio – l’ethos occupi lo stesso luogo di superamento della scissione che spetterà poi alla forma-di-vita. Mentre con il progetto Homo sacer la categoria di ethos lascia definitivamente posto a quella di forma-di-vita, che assume una sistemazione più politica, indicando quella vita in cui non è più isolabile alcuna forma, inclusa quella della “nuda vita” posta a fondamento di ogni potere sovrano. Attraverso un itinerario genealogico che spazzola contropelo l’intera opera agambeniana, questa ricerca restituisce tutta la complessità di un concetto che è, insieme, esperimento linguistico, potenza ontologica e prassi politica.

Come osserva Chignola, in occasione di una conferenza – pubblicata nel 2018 – in cui si confronta con alcuni scritti di Agamben, la figura di San Francesco e la sua radicalità avevano già colpito Hardt e Negri che, nelle pagine finali di Empire, identificano nel santo l’esemplarità di una “potenza ontologica” che delinea una nuova società politica; infatti, attraverso il rifiuto della proprietas, come diritto al consumo e all’abuso e della potestas, come esercizio del potere mondano, Francesco, in quanto esemplificazione del militante rivoluzionario all’interno del mondo, propone una forma-di-vita solidale, libera e politica, in virtù della profonda relazionalità della comunità monastica in cui essa si costituisce. Riallacciandosi al quadro teorico che i due autori delineano, Agamben riprende la figura di Francesco, potenziandone però il ruolo politico nel momento stesso in cui sembra revocargli centralità e, se è vero che Agamben raramente ricorre a delle soggettivazioni interne alla governamentalità per mostrare la politicità della forma-di-vita, la ragione del suo procedere metodologico si inscrive in un’impostazione teorica che vale la pena di esplicitare.

Come nota Crosato, pur partendo da una riflessione biopolitica che, in parte, lo avvicina a Foucault e a Negri, Agamben marginalizza la politicità della singolarità che si soggettivizza all’interno delle maglie del potere, nella misura in cui la sua intera opera si configura come un ambizioso progetto ontologico di scardinamento – e non di riconfigurazione – dell’intero impianto politico contemporaneo, all’interno del quale il quodlibet ens è governamentalizzato. Poiché, in una prospettiva agambeniana, non si dà alcuna libertà politica all’interno di un meccanismo ontologico-politico che minaccia l’integrità dell’essere, nessuna figura realmente politica può essere selezionata al suo interno e la politicità di Francesco, oltre che sull’esposizione di una vita comunitaria e intrinsecamente relazionale, si fonda piuttosto sulla neutralizzazione del giuridico che, braccio disciplinare della governamentalità, segue alla forma-di-vita, in quanto atto di costituzione comunitaria. Nonostante il koinos bios qualifichi la forma di vita monastica, è quindi solo il carattere costitutivo della Regola a determinare, escludendo qualsiasi eterodirezione giuridica, che la soggettività del monaco definisca una forma-di-vita. Detto altrimenti, chi sia il monaco è definito da qualcosa che soggettiva la singolarità, al di fuori delle determinazioni che il diritto istituisce e questo qualcosa è una prassi etica costitutiva che tramuta la forma vitae monastica in una forma-di-vita, ossia, propriamente, in una «vita inattingibile dal diritto». Inoltre, non rappresentando l’esito conclusivo di una prassi collettivamente progettata, ma essendo un habitus collettivamente introiettato, la forma-di-vita non è ciò che rimane una volta dismesso il diritto, quanto piuttosto la consuetudine costante e comunitaria che, riproducendosi, continuamente neutralizza il diritto.

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