Giampaolo Ghilardi, L’uomo analogico

Il libro analizza questioni di etica applicata lette attraverso un’antropologia normativa che ha il proprio fondamento nella dottrina dell’analogia. L’idea centrale è che, così come l’essere si dice in molti modi, allo stesso modo l’uomo, che è poi colui che dice l’essere, si dice in altrettanti modi. Nel dire “l’uomo è”, non c’è predicato che possa colmare adeguatamente quanto preannunciato dal verbo. Questa forma di trascendenza, intravista dall’analogia dell’essere, viene messa a tema nei diversi ambiti di filosofia morale applicati all’attuale contesto tecno-scientifico. Normalmente appannaggio dei pochi esperti di filosofia antica e medievale, la dottrina dell’analogia viene qui dispiegata nel suo potenziale esplicativo in rapporto a temi come la percezione, la conoscenza, la fisiognomica, la libertà, il digitale, il Transumanesimo, l’intelligenza artificiale, l’eterno ritorno e la morte. Lungi dall’essere un’idea antiquata, l’analogia viene presentata come il tratto specifico del pensiero umano che non subisce l’obsolescenza dei tempi digitali, anzi ne determina il corso.

L’inganno “dell’inganno” dei sensi

In uno dei celebri tropi di Sesto Empirico, che erano tesi esposte a favore della sospensione del giudizio sulla realtà delle cose, si legge: «lo stesso remo [appare] spezzato quando è nell’acqua e diritto quando è fuori». L’osservazione secondo la quale il medesimo oggetto può essere percepito in due modi completamente diversi, curvo/spezzato oppure diritto, è alla base dello scetticismo antico. Fu proprio a partire da questa base che Platone nel Fedone avanzò per primo la necessità di andare oltre la conoscenza sensibile, considerata inaffidabile, per guadagnare una forma conoscitiva più stabile, meno soggetta all’ambivalenza della percezione sensibile, e giungere quindi alla conoscenza intelligibile della sua famosa seconda navigazione, vale a dire appunto la conoscenza soprasensibile.

Occorre però domandarsi, in che modo i sensi ci ingannino. Dopo tutto, stante l’esempio del remo, è abbastanza semplice replicare che non c’è alcun inganno sensoriale nelle due diverse percezioni, ma piuttosto ci troviamo di fronte a contesti percettivi differenti: è l’acqua che mediante un gioco di rifrazioni ci consegna un’immagine discontinua del remo che nell’aria ci appare invece diritto. L’acqua in qualche modo “distorce” la percezione, non i sensi, che in quanto tali sono “innocenti” rispetto alla distorsione. L’inganno, se proprio si vuole adottare questo termine, non starebbe tanto nell’occhio, ma nel giudizio successivo che non terrebbe conto dell’ambiente percettivo in cui l’oggetto percepito viene colto: l’acqua con le sue proprietà rifrattive. Ad essere rigorosi si potrebbe anzi dire che il sistema visuo-percettivo, facendo vedere il remo immerso “ondivago”, ci offre ulteriori informazioni sul contesto ambientale in cui si svolge la percezione, piuttosto che confonderci. È cioè un plus informativo eventualmente il problema, non una distorsione.

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