Oggi si fa un gran parlare di identità sociali, etniche, nazionali e politiche. Alla “morte del soggetto”, fieramente proclamata urbi et orbi non molto tempo fa, è seguito un nuovo e diffuso interesse per le molteplici identità che emergono e proliferano nel nostro mondo contemporaneo. Questi due movimenti non sono, tuttavia, in un contrasto così completo e drammatico come saremmo tentati di credere a prima vista. Forse la morte del Soggetto (con la “S” maiuscola) è stata il requisito indispensabile per questo rinnovato interesse per la questione della soggettività. È forse la stessa impossibilità di attribuire ancora a un centro trascendentale le espressioni concrete e finite di una soggettività multiforme a fare in modo che la nostra attenzione si concentri sulla molteplicità stessa. Le azioni fondatrici degli anni Sessanta sono ancora presenti, e rendono possibili le esplorazioni politiche e teoretiche in cui siamo oggi impegnati.
Se, tuttavia, c’è stato questo divario temporale tra ciò che era diventato teoreticamente pensabile e ciò che è stato realmente ottenuto, è perché una seconda e più sottile tentazione ha ossessionato l’immaginario intellettuale della Sinistra per un po’ di tempo: quella di rimpiazzare il soggetto trascendentale con il suo altro simmetrico, di reinscrivere le molteplici forme delle soggettività allo stato brado in una totalità oggettiva. Da ciò è derivato un concetto che ha avuto una grande fortuna nella nostra preistoria immediata: quello di “posizioni del soggetto”. Ma questo non era, chiaramente, un reale superamento della problematica della soggettività trascendente (qualcosa che ci perseguita come un’assenza è, in effetti, molto presente). “La storia è un processo senza soggetto”. Forse. Ma come lo sappiamo? La possibilità di tale proposizione non richiede già ciò che si stava cercando di evitare? Se la storia come totalità è un possibile oggetto di esperienza e di discorso, chi potrebbe essere il soggetto di tale esperienza ma allo stesso tempo il soggetto di una conoscenza assoluta? Ora, se proviamo a evitare questa trappola, e a negare il terreno che renderebbe la proposizione fornita di senso, ciò che diventa problematica è la stessa nozione di “posizione del soggetto”.
Che cosa potrebbe essere tale posizione se non una posizione speciale all’interno di una totalità, e cosa potrebbe essere questa totalità se non l’oggetto dell’esperienza di un soggetto assoluto? Nello stesso momento in cui il terreno della soggettività assoluta collassa, collassa anche la stessa possibilità di un oggetto assoluto. Non c’è reale alternativa tra Spinoza e Hegel. Ma questo ci pone su un terreno molto diverso: un terreno in cui la possibilità della distinzione soggetto/oggetto è il semplice risultato dell’impossibilità di costituire ognuno dei suoi due termini. Io sono un soggetto precisamente perché non posso essere una coscienza assoluta, perché qualcosa di costitutivamente alieno sta di fronte a me; e non può esserci nessun oggetto puro in seguito a questa opacità/alienazione che mostra le tracce del soggetto nell’oggetto. Dunque, una volta che l’oggettivismo è scomparso come “ostacolo epistemologico”, è diventato possibile sviluppare le piene implicazioni della “morte del soggetto”. Adesso, quest’ultimo ha mostrato il veleno segreto che lo abita, la possibilità della sua seconda morte: “la morte della morte del soggetto”; la ri-emergenza del soggetto in seguito alla propria morte; la proliferazione di finitudini concrete i cui limiti sono la fonte della loro forza; la consapevolezza che ci possano essere “soggetti” perché il divario che “il Soggetto” avrebbe dovuto colmare è davvero incolmabile.
Questa non è solo un’astratta speculazione; è invece una strada intellettuale aperta proprio dal terreno in cui la storia ci ha gettati: la moltiplicazione di nuove – e non così nuove – identità in seguito al collasso dei luoghi da cui i soggetti universali hanno parlato – l’esplosione delle identità etniche e nazionali nell’Europa dell’Est e nei territori dell’ex URSS, le lotte dei gruppi immigrati nell’Europa Occidentale, nuove forme di protesta multiculturale e di auto-affermazione negli USA, a cui dobbiamo aggiungere la serie di forme di contestazione associate ai nuovi movimenti sociali. Ora sorge una domanda: questa proliferazione è pensabile solo come proliferazione – cioè, semplicemente nei termini della sua molteplicità? Per porre il problema nei suoi termini più semplici: è pensabile il particolarismo solo come particolarismo, fuori dalla dimensione differenziale che afferma? I rapporti tra universalismo e particolarismo sono semplici rapporti di reciproca esclusione? Oppure, rivolgendoci alla questione dall’angolatura opposta: l’alternativa tra un oggettivismo essenziale e un soggettivismo trascendentale esaurisce la serie di giochi linguistici che si possono fare con l’“universale”?
Queste sono le questioni principali sulle quali mi concentrerò. Non avrò la pretesa che il luogo dell’interrogativo non influenzi la natura delle domande, e che questa non predetermini il tipo di risposta che ci si può aspettare. Non tutte le strade portano a Roma. Confessando la natura tendenziosa del mio intervento, però, concedo al lettore la sola libertà che è in mio potere garantire: quella di uscire dal mio discorso e rifiutarne la validità con termini che sono interamente incommensurabili con esso. Così, offrendo qualche superficie di iscrizione per la formulazione di domande piuttosto che di risposte, mi sto impegnando in una lotta per il potere per cui c’è un nome: egemonia.
Cominciamo considerando le forme storiche in cui la relazione tra universalità e particolarità è stata pensata. Un primo approccio afferma: (a) che c’è una linea divisoria incontaminata tra l’universale e il particolare; e (b) che il polo dell’universale è interamente afferrabile dalla ragione. In questo caso, non c’è mediazione possibile tra universalità e particolarità: il particolare può solo corrompere l’universale. Siamo nel terreno dell’antica filosofia classica. O il particolare comprende in sé l’universale – cioè si elimina come particolare e si trasforma in un medium trasparente attraverso cui opera l’universalità – o nega l’universale affermando il suo particolarismo (ma dal momento che è puramente irrazionale, non ha un’entità propria e può solo esistere come corruzione dell’essere). La domanda ovvia riguarda la frontiera che divide universalità e particolarità: è universale o particolare? Se è particolare, l’universalità può essere solo una particolarità che si definisce nei termini di un’esclusione illimitata; se universale, il particolare stesso diventa parte dell’universale e la linea divisoria è ancora sfumata. Ma la stessa possibilità di formulare quest’ultima domanda richiederebbe che la forma dell’universalità in quanto tale sia soggetta a una chiara differenziazione dal contenuto reale a cui è associata. Il pensiero di questa differenza, tuttavia, non è disponibile alla filosofia antica.
Il secondo possibile modo di pensare la relazione tra universalità e particolarità è connesso al cristianesimo. Un punto di vista della totalità esiste ma è quello di Dio, non il nostro, e quindi non è accessibile alla ragione umana. Credo quia absurdum. L’universale è un mero evento in una successione escatologica, accessibile a noi solo attraverso la rivelazione. Ciò implica una concezione interamente diversa della relazione tra particolarità e universalità. La linea divisoria non può essere, come nel pensiero antico, quella tra razionalità e irrazionalità, tra uno strato profondo e uno superficiale dentro la cosa, ma quella tra due serie di eventi: quelli della successione finita e contingente da una parte, e quelli escatologici dall’altra. Poiché i disegni di Dio sono imperscrutabili, lo strato profondo non può essere un mondo senza tempo di forme razionali, ma una successione temporale di eventi essenziali che sono opachi alla ragione umana; e poiché ognuno di questi momenti universali deve realizzarsi in una realtà finita che non ha niente in comune con loro, anche la relazione tra i due ordini deve essere opaca e incomprensibile. Questo tipo di relazione si chiama incarnazione, il suo tratto distintivo è che tra l’universale e il corpo che lo incarna non c’è nessuna connessione razionale. Dio è il solo e assoluto mediatore. Così, una logica sottile destinata ad avere una profonda influenza sulla nostra tradizione intellettuale era cominciata: quella di un agente privilegiato della storia, l’agente il cui corpo particolare era l’espressione di un’universalità che lo trascende. L’idea moderna di “classe universale” e le varie forme di eurocentrismo non sono altro che i lontani effetti storici della logica dell’incarnazione.
Non è del tutto così, tuttavia, perché la modernità al suo apice tentava soprattutto di interrompere questa logica dell’incarnazione. Dio, come fonte assoluta di ogni cosa che esiste, è stato rimpiazzato nella sua funzione di garante universale dalla ragione, solo che una fonte e un fondamento razionali hanno una loro logica, che è molto diversa da quella dell’intervento divino – la differenza principale è che gli effetti di un fondamento razionale devono essere pienamente trasparenti alla ragione umana. Ora, questo requisito è del tutto incompatibile con la logica dell’incarnazione; se tutto deve essere trasparente alla ragione, anche la connessione tra l’universale e il corpo che lo incarna deve esserlo; in questo caso, l’incommensurabilità tra l’universale da incarnare e il corpo che incarna deve essere eliminata. Dobbiamo postulare un corpo che è, in sé e per sé, l’universale.
Per la piena consapevolezza di queste implicazioni ci sono voluti diversi secoli. Descartes ha postulato un dualismo in cui l’ideale di una piena razionalità rifiutava ancora di diventare un principio di riorganizzazione del mondo sociale e politico; ma le principali correnti dell’Illuminismo stavano stabilendo una frontiera netta tra il passato, che era il regno degli errori e delle follie degli uomini, e un futuro razionale, che doveva essere il risultato di un atto di istituzione assoluta. Un ultimo stadio nell’avanzamento di questa egemonia razionalistica ha avuto luogo quando il divario tra il razionale e l’irrazionale veniva colmato attraverso la rappresentazione dell’atto della sua cancellazione come momento necessario nell’auto-sviluppo della ragione: questo era il compito di Hegel e Marx, che affermavano la totale trasparenza, nella conoscenza assoluta, del reale alla ragione. Il corpo del proletariato non è più un corpo particolare in cui un’universalità esterna a esso deve essere incarnata: è invece un corpo in cui la distinzione tra particolarità e universalità è cancellata e, di conseguenza, il bisogno di qualsiasi incarnazione è definitivamente sradicato.
Questo era il punto, tuttavia, in cui la realtà sociale rifiutava di abbandonare la sua resistenza al razionalismo universalistico. Perché un problema insoluto rimaneva ancora. L’universale aveva trovato il proprio corpo, ma questo era ancora il corpo di una certa particolarità – la cultura europea del diciannovesimo secolo. Dunque la cultura europea era particolare, e allo stesso tempo espressione – non più incarnazione – dell’universale essenza umana (come l’URSS sarà considerata in seguito la “madrepatria” del socialismo). Il problema cruciale qui è che non c’erano mezzi intellettuali per distinguere tra il particolarismo europeo e le funzioni universali che si presumeva dovesse incarnare, dato che l’universalismo europeo aveva costruito la sua identità precisamente attraverso la cancellazione della logica dell’incarnazione e, poi, attraverso l’universalizzazione del proprio particolarismo. Così, l’espansione imperialista europea doveva essere presentata nei termini di universale funzione civilizzatrice, di modernizzazione e così via. Le resistenze di altre culture venivano, in seguito, presentate non come lotte tra identità particolari e culture, ma come parte di una lotta onnicomprensiva ed epocale tra universalità e particolarismo – la nozione di popoli senza storia esprime precisamente la loro incapacità a rappresentare l’universale.
Questo argomento potrebbe essere concepito in termini razzisti molto espliciti, come nelle varie forme di darwinismo sociale, ma se ne potrebbe dare anche qualche versione più “progressista” – come in alcuni settori della Seconda Internazionale – affermando che la missione civilizzatrice dell’Europa sarebbe finita con la costituzione di una società universalmente liberata di dimensioni planetarie. Dunque, la logica dell’incarnazione era reintrodotta – dovendo l’Europa rappresentare, per un certo periodo, gli universali interessi umani. Nel caso del marxismo, ha luogo una simile reintroduzione della logica dell’incarnazione. Tra il carattere universale dei compiti della classe operaia e la particolarità delle sue domande concrete si è aperto un divario crescente, che doveva essere riempito dal Partito come rappresentante degli interessi storici del proletariato. Il divario tra classe stessa e classe per se stessa ha aperto la strada a una successione di sostituzioni: il Partito ha rimpiazzato la classe, l’autocrate il Partito, e così via. Ora, questa ben nota migrazione dell’universale attraverso i corpi successivi che lo incarnano differiva dall’incarnazione cristiana in un punto cruciale. Nell’ultima un potere sovrannaturale era responsabile sia dell’avvento dell’evento universale sia del corpo che doveva incarnare quest’ultimo. Gli esseri umani erano nella stessa condizione davanti a un potere che li trascendeva tutti. Nel caso di un’escatologia secolare, tuttavia, poiché la fonte dell’universale non è esterna ma interna al mondo, l’universale può solo manifestarsi attraverso la costituzione di un’ineguaglianza essenziale tra le posizioni oggettive e gli agenti sociali. Alcuni di questi saranno agenti privilegiati del cambiamento storico, non in quanto risultato di una relazione contingente di forze ma perché incarnazioni dell’universale. Lo stesso tipo di logica all’opera nell’eurocentrismo stabilirà il privilegio ontologico del proletariato.
Poiché questo privilegio ontologico è il risultato di un processo che era concepito come interamente razionale, esso era anche un privilegio epistemologico: il punto di vista del proletariato soppianta l’opposizione soggetto/oggetto. In una società senza classi, le relazioni sociali sarebbero finalmente del tutto trasparenti. È vero che se la semplificazione crescente della struttura sociale sotto il capitalismo avesse avuto luogo nel modo predetto da Marx, le conseguenze di questo approccio non avrebbero dovuto essere necessariamente autoritarie, in quanto la posizione del proletariato come portatore del punto di vista della totalità sociale e la posizione della vasta maggioranza della popolazione si sarebbero sovrapposte. Ma se il processo si fosse mosso – come è successo – nella direzione opposta, i corpi successivi che avrebbero incarnato il punto di vista della classe universale dovevano avere una base sociale sempre più ristretta. Il partito d’avanguardia, come particolarità concreta, doveva proclamare di avere conoscenza del “significato oggettivo” di ogni evento, e il punto di vista delle altre forze sociali particolari doveva essere dismesso come falsa coscienza. Da questo punto in avanti, la svolta autoritaria era inevitabile.
Questa intera storia conduce apparentemente a una conclusione inevitabile: l’abisso tra l’universale e il particolare è incolmabile – che è lo stesso di dire che l’universale non è più di un particolare che a un certo momento è diventato dominante, che non c’è modo di raggiungere una società riconciliata. E, nel fatto concreto, lo spettacolo delle lotte sociali e politiche degli anni Novanta sembrano metterci di fronte, come abbiamo detto prima, a una proliferazione di particolarismi, mentre il punto di vista dell’universalità è sempre più messo da parte come un sogno totalitario vecchio stile. Tuttavia, proverò a dimostrare che un appello al puro particolarismo non è una soluzione ai problemi che stiamo affrontando nelle società contemporanee. In primo luogo, l’affermazione del puro particolarismo, indipendentemente da ogni contenuto e dall’appello a un universale che lo trascende, è un’impresa destinata al fallimento. Se è il solo principio normativo accettato, ci mette di fronte a un paradosso insolvibile. Posso difendere il diritto di minoranze sessuali, razziali e nazionali nel nome del particolarismo; ma se il particolarismo è il solo principio valido, devo anche accettare i diritti all’auto-determinazione di tutti i tipi di gruppi reazionari coinvolti in pratiche antisociali. Ancora di più: poiché le domande dei vari gruppi si scontreranno necessariamente le une con le altre, dobbiamo appellarci – non potendo postulare qualche tipo di armonia prestabilita – a certi princìpi più generali per regolare tali scontri. Nel fatto concreto, non c’è particolarismo che non faccia appello a dei princìpi nella costruzione della propria identità. Questi princìpi possono essere progressisti nella nostra valutazione, come il diritto del popolo all’auto-determinazione – o reazionari, come il darwinismo sociale o il diritto al Lebensraum – ma ci sono sempre, e per ragioni essenziali.
C’è una seconda e forse più importante ragione per cui il puro particolarismo è destinato al fallimento. Accettiamo, per amore di discussione, che la summenzionata armonia prestabilita sia possibile. In questo caso, i vari particolarismi non sarebbero in relazione antagonistica gli uni con gli altri, ma coesisterebbero in un intero coerente. Questa ipotesi mostra chiaramente perché l’argomento a sostegno del puro particolarismo è fondamentalmente inconsistente. Se ogni identità è in una relazione differenziale, non-antagonistica con tutte le altre identità, allora l’identità in questione è puramente differenziale e relazionale; dunque presuppone non solo la presenza di tutte le altre identità ma anche il terreno totale che costituisce le differenze come differenze. Ancora peggio: sappiamo molto bene che le relazioni tra i gruppi sono costituite come relazioni di potere – cioè, che ogni gruppo non è solo diverso dagli altri ma costituisce in molti casi tale differenza sulla base dell’esclusione e della subordinazione di altri gruppi. Ora, se la particolarità si afferma come mera particolarità, in una relazione puramente differenziale con altre particolarità, essa ratifica lo status quo nella relazione di potere tra i gruppi. Questa è esattamente la nozione di “sviluppi separati” formulata nell’apartheid: solo l’aspetto differenziale viene accentuato, mentre le relazioni di potere su cui si basa l’ultimo vengono sistematicamente ignorate.
Questo ultimo esempio è importante perché, provenendo da un universo discorsivo – l’apartheid sudafricano – che in sostanza è opposto a quello dei nuovi particolarismi di cui stiamo discutendo, e rivelando, tuttavia, le stesse ambiguità nella costruzione di ogni differenza, apre la strada alla comprensione di una dimensione della relazione particolarismo/universalismo che è stata generalmente ignorata. Il punto basilare è questo: non posso affermare un’identità differenziale senza distinguerla da un contesto, e, nel processo di discernimento, sto affermando allo stesso tempo il contesto. Ed è vero anche l’opposto: non posso distruggere un contesto senza distruggere allo stesso tempo l’identità del soggetto particolare che mette in atto la distruzione. È un fatto storico ben noto che una forza oppositiva la cui identità è costruita dentro un certo sistema di potere è ambigua rispetto a quel sistema, perché l’ultimo è ciò che impedisce la costituzione dell’identità ed è, al tempo stesso, la sua condizione di esistenza. E ogni vittoria contro il sistema destabilizza anche l’identità della forza vittoriosa.
Ora, un corollario importante a questo argomento è che se una differenza pienamente acquisita elimina la dimensione antagonistica costitutiva di ogni identità, la possibilità di mantenere questa dimensione dipende dallo stesso fallimento nel costituire pienamente un’identità differenziale. È qui che l’“universale” entra in scena. Supponiamo di occuparci della costituzione dell’identità di una minoranza etnica, per esempio. Come abbiamo detto prima, perché questa identità differenziale sia pienamente acquisita, deve trovarsi all’interno di un contesto – per esempio, uno stato-nazione – e il prezzo da pagare per la vittoria totale all’interno del contesto è la totale integrazione con esso. Se, al contrario, la totale integrazione non ha luogo, è perché quell’identità non è pienamente acquisita – ci sono, per esempio, domande insoddisfatte che riguardano l’accesso all’educazione, all’impiego, ai beni di consumo e così via. Queste domande non possono essere fatte in termini di differenza, ma in nome di qualche principio universale che la minoranza etnica condivide col resto della comunità: il diritto di tutti ad avere accesso a buone scuole, o a vivere una vita decente, o a partecipare nello spazio pubblico della cittadinanza, e così via.
Questo significa che l’universale è parte della mia identità finché sono permeato da una mancanza costitutiva, cioè finché la mia identità differenziale fallisce nel suo processo di costituzione. L’universale emerge dal particolare non come un certo principio sottostante che spiega il particolare, ma come un orizzonte incompleto che sutura un’identità particolare dislocata. Ciò indica un modo di concepire le relazioni tra l’universale e il particolare che è diverso da quello che abbiamo esplorato prima. Nel caso della logica dell’incarnazione, l’universale e il particolare erano identità del tutto costituite ma totalmente separate, la cui connessione era il risultato di un intervento divino, impenetrabile per la ragione umana. Nel caso delle escatologie secolarizzate, il particolare doveva essere completamente eliminato: la classe universale era concepita come la cancellazione di tutte le differenze. Nel caso del particolarismo estremo non c’è nessun corpo universale – ma, poiché l’insieme delle particolarità non-antagonistiche ricostruisce puramente e semplicemente la nozione di totalità sociale, la classica nozione di universale non è messa in questione in nessun modo. (Un universale concepito come uno spazio omogeneo differenziato dalle sue articolazioni interne e un sistema di differenze che costituisce un insieme unificato sono esattamente la stessa cosa.) Adesso mostriamo una quarta alternativa: l’universale è il simbolo di una pienezza assente e il particolare esiste solo nel movimento contraddittorio di affermare e allo stesso tempo cancellare un’identità differenziale attraverso la sua sussunzione nel medium non-differenziale.
Dedicherò il resto di questo scritto a discutere tre importanti conclusioni politiche che si possono far derivare da questa quarta alternativa. La prima è che la costruzione di identità differenziali sulla base della chiusura totale verso ciò che è fuori di loro non è un’alternativa politica praticabile o progressista. Per esempio, nell’Europa Occidentale di oggi sarebbe una politica reazionaria nei confronti degli immigrati dell’Africa Settentrionale o della Giamaica, quella di non consentirgli nessuna forma di partecipazione alle istituzioni dell’Europa Occidentale, con la giustificazione che la loro è un’identità culturale diversa e che le istituzioni europee non riguardano loro. In questo modo, tutte le forme di subordinazione e di esclusione sarebbero consolidate con la scusa di mantenere le identità pure. La logica dell’apartheid non è solo un discorso di gruppi dominanti; come abbiamo detto prima, può anche permeare le identità degli oppressi. Nei loro limiti, concepiti come mera differenza, il discorso dell’oppressore e il discorso dell’oppresso non si possono distinguere. Il motivo l’abbiamo detto prima: se l’oppresso è definito dalla sua differenza con l’oppressore, una tale differenza è una componente essenziale dell’identità dell’oppresso. Ma in questo caso, l’oppresso non può affermare la sua identità senza affermare pure quella dell’oppressore:
Il y a bien des dangers à invoquer des différences pures, libérées de l’identique, devenues independantes du négatif. Le plus grand danger est de tomber dans les représentations de la belle-âme: rien que des différences, conciliables et fédérables, loin des luttes sanglantes. La belle-âme dit: nous sommes différentes, main non pas opposés.
L’idea di un “negativo” implicita nella nozione dialettica di contraddizione non è capace di condurci oltre questa logica conservativa della pura differenza. Un negativo che è parte della determinazione di un contenuto positivo è parte integrante dell’ultimo. Questo è ciò che mostrano le due facce della Logica di Hegel: se, da una parte, l’inversione che definisce la proposizione speculativa significa che il predicato diventa soggetto, e che un’universalità trascendente tutte le determinazioni particolari “circola” attraverso queste, dall’altra parte, tale circolazione ha una direzione dettata dal movimento delle determinazioni particolari stesse, ed è strettamente ridotta a esse. La negatività dialettica non mette in questione in alcun modo la logica dell’identità (= la logica della pura differenza).
L’ambiguità intrinseca a tutte le forme di opposizione radicale mostra proprio questo: l’opposizione, perché sia radicale, deve mettere su un terreno comune sia ciò che afferma sia ciò che esclude, e così l’esclusione diventa una forma particolare di affermazione. Ma questo significa che un particolarismo davvero desideroso di cambiamenti può ottenerli solo rifiutando sia ciò che nega la sua identità sia quell’identità stessa. Non c’è una soluzione netta al paradosso di negare radicalmente un sistema di potere mentre si rimane in segreta dipendenza da esso. È ben noto come l’opposizione a certe forme di potere richieda l’identificazione con i luoghi da cui l’opposizione opera; poiché questi luoghi sono, comunque, interni al sistema al quale opporsi, c’è un certo conservatorismo in ogni opposizione. Il motivo per cui ciò è inevitabile sta nel fatto che l’ambiguità intrinseca a ogni relazione antagonistica è qualcosa con cui possiamo negoziare ma che non possiamo realmente soppiantare – possiamo giocare con entrambi i lati dell’ambiguità e produrre risultati impedendo a ognuno di loro di prevalere in modo esclusivo, ma l’ambiguità in quanto tale non può essere risolta adeguatamente. Superare un’ambiguità implica andare oltre entrambi i suoi poli, ma ciò significa che non può esserci una politica semplice di preservazione di un’identità. Se la minoranza razziale o culturale, per esempio, deve affermare la sua identità in nuove circostanze sociali, dovrà prendere in considerazione nuove situazioni che trasformeranno inevitabilmente quell’identità. Ciò significa, naturalmente, allontanarsi dall’idea di negazione come rovesciamento radicale. La conseguenza principale che segue è che, se la politica della differenza significa continuità della differenza nell’essere sempre un altro, il rifiuto dell’altro non può essere neanche una radicale eliminazione, ma una costante rinegoziazione delle forme della sua presenza. Aletta J. Norval si è interrogata di recente riguardo alle identità in una società post-apartheid:
La domanda che incombe all’orizzonte è questa: quali sono le implicazioni che seguono dal riconoscere che l’identità dell’altro è costitutiva della propria, in una situazione in cui l’apartheid stesso sarà diventato qualcosa del passato? Ovvero, come consideriamo le identità politiche e sociali post-apartheid?
E dopo aver affermato che:
[Se] l’altro è meramente rifiutato, esteriorizzato in toto nel movimento in cui l’apartheid riceve il suo significato, avremmo effettuato un rovesciamento dell’ordine, rimanendo di fatto nel terreno in cui l’apartheid si è organizzato e regolato…
indica una possibilità diversa:
Attraverso il ricordo dell’apartheid come altro, il post-apartheid potrebbe diventare il luogo da cui la chiusura e la sutura finale delle identità si devono evitate. Paradossalmente, una società post-apartheid allora sarà radicalmente oltre l’apartheid solo nella misura in cui l’apartheid stesso sarà presente in essa come suo altro. Invece di essere cancellato una volta per tutte, l’“apartheid” stesso dovrebbe giocare il ruolo di elemento che tiene aperta la relazione con l’altro, di parola d’ordine contro ogni discorso che dichiari di essere capace di creare un’unità finale.
Questo ragionamento si può generalizzare. Tutto dipende da quale dei due movimenti ugualmente possibili che conducono alla soppressione dell’oppressione è iniziato. Nessuno dei due può evitare di mantenere il riferimento all’“altro”, ma lo fanno in due maniere completamente diverse. Se semplicemente invertiamo la relazione di oppressione, l’altro (il precedente oppressore) rimane come colui che adesso è oppresso e represso, ma questa inversione del contenuto lascia invariata la forma dell’oppressione. E poiché l’identità dei gruppi neo-emancipati è stata costituita attraverso il rifiuto dei dominanti precedenti, questi ultimi continuano a modellare l’identità dei primi. L’operazione di inversione ha luogo interamente all’interno del vecchio sistema di potere formale. Ma come abbiamo visto, ogni identità politica è internamente divisa, perché nessuna particolarità può essere costituita se non per mantenere un riferimento interno all’universalità come ciò che manca. Ma in questo caso, l’identità dell’oppressore sarà ugualmente divisa: da una parte, egli rappresenta un particolare sistema di oppressione; dall’altra, simboleggia la forma dell’oppressione in quanto tale. Questo è ciò che rende la seconda mossa suggerita dal testo di Norval possibile: invece di invertire una particolare relazione di oppressione/chiusura in ciò che ha di particolarità concreta, bisogna invertirla in ciò che ha di universalità: la forma dell’oppressione e della chiusura in quanto tale. Qui, anche il riferimento all’altro viene mantenuto ma, poiché l’inversione ha luogo al livello del riferimento universale e non dei contenuti concreti di un sistema oppressivo, le identità sia dell’oppressore sia dell’oppresso sono radicalmente cambiate. Un argomento simile era sostenuto da Walter Benjamin in riferimento alla distinzione di Sorel tra sciopero politico e sciopero proletario: mentre lo sciopero politico mira a ottenere riforme concrete che cambiano un sistema di potere e pertanto costituiscono un nuovo potere, lo sciopero proletario mira alla distruzione del potere in quanto tale, della stessa forma del potere, e in questo senso non ha nessun obiettivo particolare.
Queste osservazioni ci permettono di gettare una luce sulle divergenti linee di condotta che le odierne lotte in difesa del multiculturalismo possono seguire. Una possibilità potrebbe essere quella di dichiarare, puramente e semplicemente, il diritto dei vari gruppi culturali ed etnici di affermare le loro differenze e i loro sviluppi separati. Questa è la strada verso l’auto-apartheid, accompagnata qualche volta dalla rivendicazione per cui i valori culturali e le istituzioni occidentali sono prerogativa degli europei e anglo-americani maschi bianchi e non hanno nulla a che fare con l’identità di altri gruppi che vivono nello stesso territorio. Ciò che viene difeso in questo modo è un totale segregazionismo, la mera opposizione di un particolarismo con un altro. Adesso, è vero che l’affermazione di ogni identità particolare comporta, come una delle sue dimensioni, l’affermazione del diritto a un’esistenza separata. Ma è qui che cominciano le difficoltà, perché la separazione – o meglio, il diritto alla differenza – deve essere affermata dentro la comunità globale – cioè dentro uno spazio in cui quel gruppo particolare deve coesistere con altri gruppi. Ora, come potrebbe essere possibile quella coesistenza senza qualche valore universale condiviso, senza un senso di appartenenza a una comunità più vasta di ognuno dei gruppi particolari in questione? A volte si dice che ogni accordo dovrebbe essere raggiunto attraverso una negoziazione. Negoziazione, tuttavia, è un termine ambiguo che può significare cose molto diverse. Una di queste è un processo di pressioni reciproche e concessioni il cui risultato dipende solo dall’equilibrio di potere tra gruppi antagonistici. È ovvio che nessun senso della comunità può essere costruito attraverso quel tipo di negoziazione. La relazione tra gruppi può solo essere di guerra potenziale. Vis pacis para bellum. Non siamo lontani dalla concezione della natura dell’accordo tra gruppi implicito nella concezione leninista di alleanze tra classi: l’accordo riguarda solo questioni circostanziali, ma l’identità delle forze che vi entrano rimane incontaminata dal processo di negoziazione. Tradotta nel campo culturale, questa affermazione di separatismo estremo ha condotto a una netta distinzione tra scienza borghese e scienza proletaria. Gramsci era ben consapevole che, a dispetto dell’estrema diversità delle forze sociali che dovevano entrare nella costruzione di un’identità egemonica, nessuna volontà collettiva e nessun senso della comunità potrebbe risultare da una tale concezione di negoziazione e alleanza. Il dilemma dei difensori del particolarismo estremo è che la loro azione politica è ancorata a una perpetua incoerenza. Da una parte, essi difendono il diritto alla differenza in quanto diritto universale, e questa difesa implica il loro coinvolgimento nelle lotte per dei cambiamenti nella legislazione, per la protezione delle minoranze nelle corti, contro la violazione dei diritti civili, e così via. Vale a dire che essi sono impegnati in una lotta per la riforma interna del presente scenario istituzionale. Ma dall’altra parte, poiché allo stesso tempo affermano sia che questo scenario è necessariamente radicato nei valori culturali e politici dei settori dominanti tradizionali dell’occidente sia che non hanno niente a che fare con quella tradizione, le loro richieste non possono essere articolate in una qualsiasi operazione egemonica più ampia che riformi il sistema. Ciò li condanna a un’ambigua relazione periferica con le istituzioni esistenti, che può avere solo effetti politici paralizzanti.
Questa non è, tuttavia, la sola possibile linea di condotta per chi è impegnato in lotte particolaristiche – e questa è la nostra seconda conclusione. Come abbiamo visto prima, un sistema di oppressione (cioè di chiusura) può essere combattuto in due modi diversi – sia tramite un’operazione di inversione che esegue una nuova chiusura, sia negando in quel sistema la sua dimensione universale: il principio di chiusura in quanto tale. C’è da dire che i valori universalistici dell’occidente sono prerogativa dei suoi gruppi dominanti tradizionali; è molto diverso affermare che il legame storico tra i due sia un fatto contingente e inaccettabile che può essere modificato attraverso lotte politiche e sociali. Quando Mary Wollstonecraft, sulla scia della Rivoluzione francese, ha difeso i diritti delle donne, non ha presentato l’esclusione delle donne dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino come prova che questi ultimi fossero intrinsecamente diritti maschili, ma cercò, al contrario, di approfondire la rivoluzione democratica mostrando l’incoerenza nello stabilire diritti universali che erano ristretti a particolari settori della popolazione. Il processo democratico nelle società odierne può essere considerevolmente approfondito ed esteso se reso sensibile alle richieste di vaste sezioni della popolazione – minoranze, gruppi etnici e così via – che tradizionalmente sono stati esclusi. La teoria democratica e le istituzioni liberali devono in questo senso essere decostruite. Dal momento che erano originariamente pensate per società che erano molto più omogenee di quelle presenti, esse erano basate su tutti i tipi di presupposti inespressi che non sono più in vigore nella situazione presente. Le lotte sociali e politiche odierne possono portare in primo piano questo gioco di decisioni prese in un terreno indecidibile, e aiutano a muoverci nella direzione di nuove pratiche democratiche e di una nuova teoria democratica che siano pienamente adattate alle circostanze presenti. Che la partecipazione politica possa condurre all’integrazione politica e sociale è certamente vero, ma per le ragioni che abbiamo fornito prima, la segregazione politica e culturale può portare esattamente allo stesso risultato. A ogni modo, il declino delle abilità integrazioniste degli stati occidentali rende il conformismo politico un risultato piuttosto improbabile. Vorrei avanzare l’ipotesi che la tensione irrisolta tra universalismo e particolarismo apra la strada a un allontanamento dall’Eurocentrismo occidentale, attraverso l’operazione che potremmo chiamare un decentramento sistematico dell’occidente. Come abbiamo visto, l’Eurocentrismo era il risultato di un discorso che non faceva differenza tra i valori universali che l’occidente stava difendendo e i concreti agenti sociali che li stavano incarnando. Ora, tuttavia, possiamo procedere a una separazione di questi due aspetti. Se le lotte sociali dei nuovi attori sociali mostrano che le pratiche concrete della nostra società restringono l’universalismo dei nostri ideali politici a settori limitati della popolazione, diventa possibile conservare la dimensione universale mentre si ampliano le sfere della sua applicazione – che, a loro volta, definiranno i contenuti concreti di tale universalità. Attraverso questo processo, l’universalismo come orizzonte si espande nello stesso tempo in cui il suo necessario attaccamento a qualsivoglia contenuto particolare viene a mancare. L’opposta politica – quella di rifiutare l’universalismo in toto come contenuto particolare dell’etnia occidentale – può solo condurre a un vicolo cieco politico.
Questo ci lascia, tuttavia, in un apparente paradosso – e la sua analisi sarà la mia ultima conclusione. L’universale, come abbiamo visto, non ha un proprio contenuto concreto (che lo chiuderebbe su se stesso), ma è un orizzonte sempre sfuggente che consegue dall’espansione di una catena indefinita di domande equivalenti. La conclusione sembra essere che l’universalità sia incommensurabile con la particolarità ma che non possa, tuttavia, esistere senza il particolare. Nei termini della nostra analisi precedente: se solo gli attori particolari, o le costellazioni di attori particolari possono tradurre in atto l’universale in ogni momento, in questo caso, la possibilità di rendere visibile la non chiusura intrinseca a una società post-dominata – cioè una società che tenta di trascendere la stessa forma di dominazione – dipende dal rendere permanente l’asimmetria tra l’universale e il particolare. L’universale è incommensurabile col particolare, ma non può, tuttavia, esistere senza l’ultimo. Come è possibile questa relazione? La mia risposta è che questo paradosso non può essere risolto, ma che la sua non-soluzione è la vera precondizione per la democrazia. La soluzione del paradosso implicherebbe la scoperta di un corpo particolare, che funga da vero corpo dell’universale. Ma in questo caso, l’universale avrebbe trovato il suo posto necessario, e la democrazia sarebbe impossibile. Se la democrazia è possibile, è perché l’universale non ha un corpo necessario e un contenuto necessario; gruppi diversi, invece, competono tra loro per fornire temporaneamente ai loro particolarismi una funzione di rappresentazione universale. La società genera un intero vocabolario di significanti vuoti i cui significati temporanei sono il risultato di una competizione politica. È il fallimento finale della società a costituirsi come società – che è la stessa cosa del fallimento nel costituire la differenza come differenza – che rende la distanza tra l’universale e il particolare incolmabile e, di conseguenza, investe i concreti agenti sociali dell’impossibile compito di rendere l’interazione democratica raggiungibile.