L’immaginario della guerra
Uccelli di legno e cuoio che spiccano il volo. Filamenti di carbonio che squarciano l’oscurità delle strade cittadine. Parole e suoni che, attraverso fili di rame o volando nell’etere, attraversano i continenti. Per alcuni decenni, tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e per i fortunati (occidentali e benestanti) che potevano godere delle nuove meraviglie della tecnica, tutto sembrava possibile. Poi venne la guerra.
La prima guerra mondiale non mise certamente fine al “progresso” tecnologico: i campi di battaglia videro anzi l’applicazione di tutte le maggiori scoperte della seconda rivoluzione industriale, dal telefono al motore a scoppio, dalla chimica alla medicina, alle nuove tecniche di produzione industriale e gestione della forza lavoro. Le tecnologie coinvolte uscirono dalla trincea perfezionate (si pensi all’aereo o al sommergibile), rivoluzionate (si pensi alla radio, al filo spinato o ai gas tossici) e pronte per una nuova guerra. Alcune tecnologie che sarebbero state centrali nei conflitti successivi, come il carro armato, l’aereo bombardiere e la mitragliatrice leggera, ebbero i propri natali durante il conflitto.
Ma i massacri tecnologici della prima guerra mondiale misero fine al Progresso positivista, alla incrollabile certezza che all’evoluzione della scienza e della tecnica corrispondesse, per forza di cose, un’evoluzione della Civiltà. I soldati mutilati o resi pazzi dall’artiglieria, il profilo del dirigibile nel cielo notturno, gli occhi dilatati e inespressivi della maschera antigas divennero simbolo di un “progresso” tecnologico sinonimo di barbarie. Alla fine della guerra tutto sembrava possibile. Anche gli incubi.
“Alla fine della guerra tutto sembrava possibile. Anche gli incubi”
L’immaginario mostrato in “Una guerra di meraviglie?”, estratto da riviste popolari di divulgazione tecno-scientifica del tempo, può essere letto come un tentativo di salvaguardare, a conflitto in corso e per tramite di una manipolazione grafica e retorica della guerra, l’idea di Progresso scientifico come sinonimo di progresso sociale e civilizzazione. Tale manipolazione si basava su due linee narrative fondamentali. La prima riprende l’argomento già sostenuto da Ivan Bloch prima del conflitto e da Richard Gatling nel commento alla mitragliatrice che aveva inventato: se le armi saranno più letali le guerre saranno più brevi e, raggiunto un certo grado di scientifica efficienza, persino impossibili, perché anti-economiche. Se la Gatling Gun può sostituire il fuoco di cento uomini, meno soldati saranno necessari sul campo di battaglia e le guerre avranno meno vittime. Ogni invenzione che promette efficienza distruttiva e la possibilità di sostituire gli eserciti di massa con un pugno di piloti è salutata come un contributo al progresso dell’umanità e, paradossalmente, alla pace mondiale. La conseguenza ultima di questa linea argomentativa è, in particolare nelle riviste statunitensi, il sogno di una guerra combattuta esclusivamente tra macchine.
La seconda linea narrativa presenta la guerra come un luogo lontano ed esotico, un’arena nella quale ingegni contrapposti danno vita a ogni sorta di meraviglia. L’attenzione delle riviste non è dunque diretta dalla effettiva valutazione dell’impatto della singola tecnologia sul conflitto, ma dalla curiosità che essa può suscitare nel pubblico. In molti casi invenzioni non funzionali – perché troppo costose da produrre, difficili da operare o semplicemente fisicamente impossibili – sono presentate in ricche illustrazioni solo per essere criticate dall’articolo di accompagnamento. Il fucile, arma in dotazione ad ogni soldato, riceve così un’attenzione infinitamente minore rispetto all’armatura di trincea o a invenzioni solo immaginate come le “corazzate di terra”.
Questa “guerra di terribili meraviglie”, come la definisce un articolista di Popular Science Monthly nel 1917, rientra a pieno titolo in quello che lo storico George Mosse ha chiamato il “processo di trivializzazione” del primo conflitto mondiale. Per trivializzazione si intende l’azione combinata di oggetti e performances a tema bellico volta a neutralizzare gli aspetti più violenti e sconcertanti dell’esperienza di trincea e rendere la guerra una parte relativamente non problematica, abituale, della vita quotidiana delle popolazioni civili. Cartoline, giocattoli, spettacoli teatrali, fiere di reclutamento presentavano una guerra innocua, edificante e persino divertente. La trivializzazione era “un modo per affrontare la guerra non con l’esaltazione o la glorificazione”, ma rendendola familiare e alla portata dell’“uomo comune” che non aveva mai visto i campi di battaglia.
Il fine della trivializzazione, così come quello delle riviste di divulgazione tecno-scientifica, non era primariamente ideologico o propagandistico, ma commerciale. I redattori non seguivano un piano consapevole di organizzazione del consenso alla guerra: il loro fine era vendere copie e raggiungere il più ampio pubblico possibile. La guerra non era che uno strumento verso questo obiettivo: in casi non infrequenti invenzioni pensate per un uso civile (come l’uniciclo di trincea) si vedevano attribuite dai redattori una funzione bellica; in altri casi l’interesse era amplificato dalla raffigurazione di soldati che usano tecnologie civili o di civili che usano tecnologie comunemente associate alla guerra (come l’uso delle maschere anti-gas nell’industria). Il processo di trivializzazione è il risultato di interessi commerciali diversi e non consapevolmente coordinati. Questo non significa che le riviste, in particolare quelle francesi e italiane, non potessero avere anche fini propagandistici, ad esempio nell’attribuire ai soli tedeschi l’uso del gas, o nel dare visibilità agli effetti dei bombardamenti sugli edifici. Ma questi corrono in parallelo al processo di trivializzazione, non ne sono il centro o l’obiettivo ultimo.
“La violenza del conflitto dunque era sminuita attraverso la concentrazione sul fattore tecnologico e la caratterizzazione della guerra come uno scontro tra macchine e tra intelligenze”
Nel campo della divulgazione scientifica il processo di trivializzazione poteva contare su strategie retoriche consolidate, particolarmente evidenti nelle riviste statunitensi e inglesi. Una raffigurazione fedele della morte tecnologica al fronte (i corpi sfigurati, mutilati, bruciati, in alcuni casi semplicemente dissolti) avrebbe impedito l’intrattenimento che era premessa necessaria della divulgazione della scienza e della tecnica a un largo pubblico. La violenza del conflitto dunque era sminuita attraverso la concentrazione sul fattore tecnologico e la caratterizzazione della guerra come uno scontro tra macchine e tra intelligenze: il soldato in carne ed ossa appariva raramente e in situazioni che escludevano la violenza interpersonale. L’effetto delle tecnologie sul corpo, così evidente nelle riviste mediche, era quasi del tutto ignorato. Quando si scriveva di mutilazioni ci si affrettava nel coronare di pieno successo gli sforzi della scienza medica nel ricostruire il corpo e della società nel reinserire il reduce in posizioni produttive. L’uso di armi “medievali” nella guerra moderna è un argomento perfetto per il processo di trivializzazione, perché presenta un fatto curioso e inaspettato. Ma, se l’armatura di trincea ha uno spazio spropositato rispetto alla sua effettiva importanza nel corso della guerra, la mazza di trincea, ben più usata ma anche ben più atroce nelle sue conseguenze, è a malapena menzionata. Le tecnologie più spaventose, come i gas tossici, ricevono poca attenzione, mentre quelle che permettono la descrizione di duelli tra macchine, come la guerra navale e quella aerea, sono al centro della scena e presenti in quasi ogni numero.
Sarebbe tuttavia errato interpretare la divulgazione scientifica popolare del tempo semplicemente come un cinico tentativo di sfruttare l’interesse che la guerra suscitava nella popolazione civile. L’argomento bellico serviva anche ad avvicinare un pubblico non specialistico alla scienza e alla tecnica: se un’invenzione non poteva funzionare il lettore era istruito sulle leggi fisiche che ne impedivano il funzionamento. La “corazzata di terra” non avrebbe mai calpestato la terra di nessuno, ma nel leggere la sua descrizione i lettori imparavano nozioni basilari sulle leggi della gravità, sul funzionamento del motore a scoppio e su alcune problematiche reali della guerra di trincea. Nelle riviste la scienza “trivializzava” la guerra e la guerra popolarizzava la scienza.
Federico Mazzini
tratto da Una guerra di meraviglie?