Sentire il grisou, com’è difficile. Il grisou è un gas inodore e incolore. Come sentirlo o vederlo allora, malgrado tutto? Detto altrimenti: come veder venire la catastrofe? E quali sarebbero gli organi sensoriali di un simile veder-venire, di un simile sguardo-tempo? L’infinita crudeltà delle catastrofi è che diventano visibili troppo tardi, quando ormai hanno avuto luogo. Le più visibili – le più evidenti, le più studiate, le più universali – le catastrofi insomma alle quali si fa spontaneamente ricorso per intendere che cos’è una catastrofe, sono catastrofi che furono, catastrofi del passato; quelle che qualcun altro, prima di noi, non ha saputo o voluto veder venire, quelle che qualcun altro non è riuscito a impedire. Le riconosciamo tanto più facilmente perché oggi non ne siamo affatto – o più – i responsabili.
Una catastrofe si annuncia raramente come tale. È facile dire, nell’assoluto del passato: “Fu una catastrofe”, quando tutto è esploso, quando ormai a morire sono stati in molti. È altrettanto facile dire, nell’assoluto del futuro: “Sarà una catastrofe” per tutti e tutto, dato che tutti e tutto, è evidente, un giorno spariranno per lenta o rapida distruzione. Ma è ben più difficile poter affermare: “Eccola che arriva, proprio adesso, qui, la catastrofe”, eccola arrivare in una configurazione che eravamo lungi dall’immaginare così fragile, così esposta al fuoco della storia. Vedere una catastrofe è vederla venire nella sua singolarità mascherata, nella particolare “incrinatura silenziosa” – motivo caro a Gilles Deleuze che Pierre Zaoui ha recentemente prolungato –, incrinatura che essa ha scavato casualmente. E quando tutto va in malora, quando la catastrofe infuria senza che niente e nessuno riesca più fermarla, non resta – a coloro che ne subiscono il massimo peso pur senza smettere di sperare, dopo la sofferenza o addirittura l’approssimarsi della morte – che l’energia di appellarsi alla testimonianza, all’archivio, alla documentazione per una storia futura della catastrofe:
Ci volgiamo verso il nostro popolo, che è ora e per sempre trascinato nel maelström generale, verso tutti i membri del vostro popolo, uomini e donne, giovani e vecchi, che vivono e soffrono, vedono e ascoltano, per gridare loro: Diventate degli storici! […] Registrate, annotate, raccogliete documenti!
Possiamo aspettarci che il pensiero, la storia e forse anche l’attività artistica ci rendano vigili alle catastrofi che si annunciano. È in ogni caso l’ingiunzione, tra le altre, che ci rivolge la visione della storia – e preciso visione – cara a Walter Benjamin, in particolare quando diceva che bisogna pensare alla storia come a un «segnalatore d’incendio» (Feuermelder): «Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata». E Benjamin può affermare con forza che non si dà pensiero – né azione – propriamente politici al di fuori di un senso comune, di una sensibilità, “tecnica” dice lui, messa in forma dai tre fattori che sono il “pericolo” (Gefahr), l’“intervento” (Eingriff) e anche (aggiunge senza una vera e propria spiegazione, ma l’intuizione non si rivela infondata) il “tempo” (Tempo), ovvero il ritmo. Benjamin, nel 1940 – vale a dire, per lui, nel momento del pericolo per eccellenza –, ribadiva che il compito dello storico non consiste nel ritornare al passato per attenersi, con maggiore o minore tranquillità, a una semplice referenza ovvero riverenza, quanto piuttosto nel ricordarsene in virtù della sua forza a sopravvenire nell’urgenza, nell’attualità del presente, che è quella di un pericolo fondamentale, cioè di una configurazione catastrofica:
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Si tratta […] di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nell’attimo del pericolo.
Non è affatto la stessa cosa commemorare una catastrofe passata, sacrificando ai fasti unanimisti dei “luoghi di memoria”, e rammemorare una catastrofe passata per illuminare la situazione presente nella prospettiva degli incendi a venire.
Perché è così difficile mantenersi all’altezza di una simile lezione? Perché è così difficile veder venire e, allo stesso tempo, vedere soltanto il movimento del pericolo, la catastrofe che cova, il grisou che si accumula? Vorrei mettere alla prova un’ipotesi tra moltissime altre (ipotesi che non avrà certo la pretesa di designare una “legge storica universale”): una catastrofe sarà non vista, non la si “vedrà mai venire”, perché sarà sempre nascosta da una catastrofe contemporanea, una catastrofe più ovvia che occuperà, in un dato momento della storia, tutto il campo visivo…