Libertà, umanismo, fine della storia

Gioele P. Cima intervista Lorenzo Chiesa

GPC: Una tesi forte di Cristianità o Comunismo?” è la rivalutazione del lavoro del “giovane Marx”, il Marx umanista. Non crede che in fondo anche questo libro presenti un “giovane Chiesa” – proprio nel senso stretto del paragone, ovvero come un insieme di scritti umanisti?

LC: In chiave polemica sono tentato di dirti che questi scritti, ma più in generale il mio stesso percorso filosofico (anche quando dà risalto alla formalizzazione), siano umanisti nella misura in cui non prescindono mai da una teoria del soggetto ispirata dalla psicoanalisi. Parlare di umanismo equivale però solo a un posizionamento per via negativa rispetto allo Zeitgeist filosofico egemone al momento, sia nel campo continentale che in quello analitico. Se c’è qualcosa che accomuna orientamenti tanto apparentemente distanti e incompatibili tra loro – ma ugualmente à la page – quanto il cognitivismo riduzionistico suppostamente scientifico e le varie espressioni del sedicente post-umanesimo (nel quale annovererei non solo fenomeni spiccatamente millenaristici quali il transumanesimo ma anche filosofie di grande presa sui giovani millenials quali il realismo speculativo e la object oriented ontology) è proprio un’oscurantistica volontà a farla finita con il soggetto in quanto problema e, in definitiva, presunto ostacolo a una soggiacente e non meglio definita libertà, più o meno programmabile all’apparenza, ma comunque in fondo psicotica ed entropica. Le potenzialità dell’ingegneria genetica, o dell’intelligenza artificiale, e la chiamata alla “democrazia degli oggetti” si collocano qui ideologicamente sullo stesso piano – un piano contraddittorio, visto che finisce per rimpiazzare il soggetto con un animismo antropomorfico diffuso e premoderno: le molecole scambierebbero tra loro “informazioni”, le macchine “imparano”, la materia sarebbe “vivace”. Certa psicoanalisi, anche lacaniana, non è esente da questo tipo di discorso falsamente emancipativo, nella fattispecie quando promuove la pulsione acefala come superamento del desiderio alienato.

In opposizione a una tale alleanza implicita, a prima vista insospettabile e senza dubbio pericolosa, rimango un razionalista cartesiano e in questo senso un umanista. Ma contro Descartes e sulla scia di Freud e Lacan, credo si possa e si debba pensare – e vivere – il cogito senza dedurne per forza un “ergo sum” centrato attorno a un “ego” sostanziale. O meglio, che quest’ultimo vada inteso come un’illusione strutturale, forse necessaria alla nostra specie. In altre parole, l’umanismo non sfocia inevitabilmente nell’elogio dell’Io. Anzi, bisogna riconoscere che umanismo e anti-umanismo sono sempre avanzati a braccetto: Prometeo non può fare a meno di Pandora; Pico della Mirandola basa la dignità dell’uomo sulla sua mancanza di essenza; il Cristianesimo sbeffeggiato in quanto pastorale, confessionale e paternalistico dal Foucault campione dell’anti-umanismo fa anche dire a Lutero che non siamo altro che feccia partorita dall’ano del diavolo, al quale rispondono poi in preteso contrasto i corpi barocchi seviziati dello Spagnoletto. In questo libro parlo di “umanismo inumano” e “umanismo mostruoso”. Partendo dalla questione del soggetto, per me è fondamentale intavolare un’antropologia filosofica che renda conto di questi ossimori. Come sostiene giustamente da un punto di vista naturalistico Diamond, l’homo sapiens va ridotto a una terza sottospecie di scimpanzé, ma, chiosa Lacan con l’avallo della prassi clinica, dato l’impatto del linguaggio e la sua impossibilità a venire a capo della sessualità, la scimmia-che-quindi-siamo solo retroattivamente ha “il fuoco sotto il culo” (non lo ruba!) e si soggettiva contingentemente e in modo sbilenco per faute de mieux. Facendo il verso all’Antichrist di Lars von Trier, siamo animali handicappati, che vorrebbero fottere come conigli e, non potendolo fare, ne soffrono, ragionano e alla fine riescono pure a clonare i conigli. Ontologia, etica e politica non possono fare a meno di affrontare queste premesse.

È in tale prospettiva che il giovane Marx diventa importante. La riflessione politica sull’antagonismo, sulla lotta di classe e finanche sul comunismo nasce dalla o almeno si innesta sull’antropologia filosofica dell’Entwesung e del Gattungswesen. La “denaturalizzazione” intrinseca alla vita-della-specie, soprattutto se intesa come “impoverimento”, si ripropone senza soluzioni di continuità nella tematica del proletariato in quanto classe dei senza classe, nel suo coincidere con una “perdita totale di umanità” che soffre metonimicamente un “torto in generale”, nella sua tendenziale estensione a un divenire-proletario universalizzabile (tema quanto mai attuale, almeno per il 99.9% di noi comuni mortali), e soprattutto nel concepire la soluzione comunista come, in poche parole, un’assunzione socialmente condivisa dell’essere-senza-risorse ma anche masochisticamente distruttivo dell’animale umano. Questo elemento passa decisamente in secondo piano nel Marx maturo, anche se riemerge con forza in alcune pagine dei Grundrisse, guarda caso quelle più proiettate verso il futuro e il rapporto uomo-macchina-sapere. Attenzione quindi a non considerare il Marx “mostruosamente” umanista come un Marx puerilmente utopico. Al contrario, le soluzioni più pragmatiche proposte dall’ultimo Marx – quello della Critica del Programma di Gotha – parlano di socialismo reale, o transizione, proprio in termini di una “distribuzione della privazione”. Da buon lettore di Marx, e contro tante caricature reazionarie o isterico-avanguardistiche, lo stesso Lenin, da statista, fa sua questa istanza e insiste a suon di decreti sulla convergenza tra sofferenza antropo-logica e “l’alleviare la vita a coloro che faticano”. Se non sgobbi, e gli altri crepano di sudore per te, allora meriti il muro. A ben guardare, anche il nesso marxismo-psicoanalisi si gioca in gran parte sulla prossimità tra questo snodo e l’Hilflosigkeit freudiana, l’essere-senza-aiuto del cucciolo d’uomo che non diventerà mai “grande” (neanche se comunista!), prima ancora che sul versante delle rispettive critiche del feticismo che ne derivano. Sia per Marx che per Lacan, il trucco finora vincente del capitalismo sta tutto nel farci credere che la mancanza che ci in-determina possa essere conteggiata, amministrata, accumulata, e trasformata in valore. Magia modernissima dell’ex-nihilo. Eccezionalmente efficace. È su questo punto che sto lavorando al momento.

Rispetto alla parte biografica della tua domanda, a quarantatré anni, ahimè, non mi sento di certo più giovane: nonostante l’incontrovertibile neotenia della specie, solo in Italia si passa ormai senza interruzione dall’essere “ragazzi” all’associatura attorno alla cinquantina, o, se meno rac-comandati, alla pensione senza pensione e alla tomba. Ma neanche considero i testi di Contro la libertà come passati. Hanno tutti dieci-quindici anni. Però quanto argomento e sto ribadendo resta per me comunque grossomodo valido: quindi non ho rinunciato a quello che chiami il mio “umanismo”. Nella prefazione all’edizione inglese spiego che si tratta di scritti occasionali, per lo più commissionati da riviste e raccolte di settori diversi (filosofiche, psicologiche, psicoanalitiche, letterarie e teatrali). Proprio per questa ragione credo funzionino, da un lato, come un banco di prova sul quale testare la cassetta degli attrezzi della psicoanalisi lacaniana senza mai volerla trasformare in psicoanalisi “applicata”, dall’altro come “cerniera” tra le mie due monografie su Lacan (Subjectivity and Otherness del 2007 e The Not-Two del 2016), dove la seconda intende fare con Lacan un passo oltre a Lacan.

Volendo proprio pensare a un “giovane Chiesa”, in cui mi riconosco solo in parte, dovrei tirare in ballo il libro su Artaud del 2001. Sono stato svezzato filosoficamente negli anni ’90 a pane, decostruzione, e post-strutturalismo – da un ottimo maestro come Pier Aldo Rovatti, di cui andrebbero riscoperti i testi pre-pensiero debole e l’incredibile slancio pedagogico, impensabile e improponibile nell’attuale contesto accademico concentrazionario, a soli vent’anni di distanza – e quel volume rimane fortemente influenzato da questo tipo di formazione. Il cambio di orientamento che si potrebbe rinvenire confrontandolo con quanto ho scritto successivamente è sottile ma ha conseguenze profonde. Sotto sotto, tutto ruota attorno a come s’intende l’espressione lacaniana “del soggetto finalmente in questione”, cara a Pier Aldo. La strada decostruttiva e foucaultiana, che mi sembra ancora prevalente in Italia, porta alla “morte del soggetto”, molto postmoderna e oggigiorno storicamente e politicamente indifendibile, anche perché ignora la scienza. L’altra prende sul serio il questionamento del soggetto attraverso la triade Galileo-Darwin-Freud e, su questa base, si impunta cocciutamente su una nuova idea di filosofia “forte”, o quantomeno non-debole e svenduta a priori al primo acquirente. A questo riguardo, sono state per me illuminanti l’amicizia e il dialogo con Slavoj Žižek (nonostante mi trovi sempre più in disaccordo teoretico con lui; penso verrà paradossalmente ricordato, suo malgrado ma senza esenzione di colpa, come l’ultimo postmoderno) e la lettura di Badiou (il più grande filosofo del secondo Novecento, che provo a stuzzicare in Contro la libertà proprio sul tema dell’antropologia filosofica, il suo tallone d’Achille).

GPC: Nella Prefazione inglese del volume, dice che questo è un libro che, squalificando il concetto della libertà come un ideale falsamente trasgressivo e negando la possibilità di un’emancipazione totale, “parla soprattutto della produttività dei vincoli”. In che senso?

LC: L’espressione “produttività dei vincoli” la devo a un attento recensore del manoscritto, Thomas Eyers, che così riassumeva la mia posizione contrapponendola a “un milieu teoretico molto spesso infatuato da ostentazioni di [pretesa] ultra-sinistra e metafisiche anti-critiche”. Credo stesse prendendo anche lui di mira certe derive animiste e vitaliste del realismo speculativo e dell’object oriented ontology, spacciate spudoratamente per materialistiche, dilaganti soprattutto nella blogosfera, e capaci di operare da veri e propri influencer nel dibattito filosofico-continentale odierno (sono ormai le Chiara Ferragni del “pensiero” a decretare in buona parte il successo o meno di un autore e di un’idea).

Detto questo, credo che la critica alla trasgressione come falsamente liberatoria e l’identificazione di un vincolo o limite come necessario all’impostazione di qualsiasi discorso emancipatorio costituiscano gli assi portanti di questa raccolta. A grandi linee, mi sembra evidente che nel contesto tardo-capitalistico globalizzato non sia effettivamente possibile trasgredire alcunché. È il Capitale stesso a generare in continuazione differenze/resistenze che poi fagocita in un attimo per potersi riprodurre, tendendo idealmente – ma per forza di cose non riuscendo mai – a totalizzarsi. Usando una formula con cui sto cercando di orientare la mia ricerca attuale, stiamo vivendo un processo di esponenziale indifferenziazione tra differenza e indifferenza, dove quest’ultima si sedimenta sempre più come cifra palpabile (anche e soprattutto a livello fenomenologico-esistenziale) dell’antinomico trionfo-crisi perpetua del capitalismo.

Ci troviamo quindi di fronte a un’impasse colossale che, in anticipo sui tempi, Pasolini aveva ben intuito, e, da martire, sofferto sulla sua pelle: il Potere contemporaneo è essenzialmente anarchico; la trasgressione totale prospera nei Lager; la fantasia al potere del ’68 perpetua la rivoluzione borghese; la liberazione sessuale serve al consumismo; la tolleranza, a ben guardare, risulta essere un sottoinsieme dell’intolleranza. Da ciò si deve perlomeno dedurre che la libertà non ha niente a che spartire con un “oltre” o un “fuori”, già sempre parte del “dentro”. Lo intende magnificamente anche Bene nel suo S.A.D.E.: la trasgressione si limita a una simulazione inscenata dal servo che tenta invano di far eiaculare un padrone irrimediabilmente im-potente. Otteniamo così un primo, pre-potente vincolo, apparentemente negativo. Su questa base possiamo però provare a imbastire, in direzione contraria, una prassi di lotta continua (Pasolini), o di analisi interminabile (Lacan), o di lavorìo (Bene), dove ciò che conta non è più la fantasia di una libertà totale e irraggiungibile, perché in fondo indistinguibile dalla peggior tirannide caotica, ma il punto retroattivo di liberazione. Parafrasando quanto dico nella Prefazione inglese e in altri passaggi del libro, se ogni conquista di libertà, ogni esposizione dell’inconsistenza del padrone im-potente, genera la sua propria servitù, si tratta allora di assumere pienamente questa coincidenza dialettica tra dis-alienazione e ri-alienazione. Bisogna far nostri non soltanto l’evanescenza della prima in quanto puramente virtuale (masochismo esibizionista dell’autore per Pasolini; traversata del fantasma per Lacan; afasia e aprassia per Bene) ma anche e soprattutto il valore direi costituente, e ugualmente fugace, della seconda in quanto differenza assoluta (codificazione di un atto incodificabile per Pasolini; emergere di un significante primordiale insensato per Lacan; forse, esasperazioni liricistiche e cliché poetici per Bene).

A questo punto, ricollegandomi anche a quanto detto nella risposta precedente e tornando su un piano antropo-logico, mi pare evidente che “la produttività dei vincoli/limiti” risieda innanzitutto nella natura del linguaggio tout-court, o meglio nella sua incompletezza, ovvero nel suo reale, croce e delizia dell’animale a cui capita di parlare. Volendo essere più psicoanalitici si potrebbe anche tirare in ballo la castrazione (limite) e il suo andare di pari passo con la funzione causativa dell’oggetto (produzione), che è tale soltanto in quanto l’oggetto a sua volta si sdoppia tra ciò che viene miticamente perso (produzione del limite) e il pezzo di merda che ci resta in mano (limite della produzione). Mi accorgo che i riferimenti fecali ormai abbondano.

Questi sono unicamente degli accenni, che andrebbero approfonditi altrove. Come mi è stato fatto giustamente notare, quanto delineo in termini di dis-alienazione, o liberazione, possibile solo attraverso la ri-alienazione si presta a un’obiezione a prima vista superficiale ma difficile da risolvere: per non cadere nella trappola del “fuori” (insidiosissima, anche Foucault ne è platealmente vittima a mio avviso) mi imboscherei nel cattivo infinito. Ovvero, non riuscirei a pensare un vero cambio strutturale. Potrei controbattere, come ho fatto en passant anche in Contro la libertà, che il processo di liberazione/ri-alienazione non equivale a mera ripetizione; ha una sua tendenza, sposta il fronte e guadagna metri, cioè disaliena più di quanto rialieni. Si tratta però comunque di una tendenza asintotica – altrimenti l’obiettivo rimarrebbe sempre un “fuori” o un “dopo”… – che quindi implica ancora un cattivo infinito. Come tenere assieme una tanto paziente quanto coraggiosa tendenza emancipativa anti-trasgressiva (o, il che è lo stesso, una trasgressione che trasgredisca solo la coazione a trasgredire dettata dal Potere) con un’idea netta di rottura (epistemica ancor prima che politica) che comunque non trascenda, nel senso di un trascendente, ciò che rompe? Sono questioni sulle quali mi sto scervellando e che lascio per ora aperte.

GPC: Alcune sue conclusioni su Pasolini e l’economia politica capitalista mi suggeriscono che lei sia anche contro il discorso della “fine della storia”, che in fin dei conti taccia di essere reazionario. A prima vista però, discorso della libertà e discorso di fine della storia, pur condividendo una finalità conservativa, sembrano (ideologicamente) antitetici: come può qualcuno che crede nella libertà rassegnarsi alla fine della storia? Qual è il punto di sovrapposizione fra questi due discorsi?

LC: Hai perfettamente ragione. L’opposizione al discorso della fine della storia è un altro filo conduttore della raccolta, poco intenzionale ma forse, retrospettivamente, ancora più presente. Tra l’altro tocchi un’altra volta una mia vena scoperta. Mi sto sforzando di trovare un’articolazione complessa tra sincronia strutturale – che non può fare a meno del soggetto-finalmente-in-questione –, un’idea residua di storia tendenziale ma non teleologica, e quella di cambio radicale. Lo faccio a partire dalla teoria dei discorsi di Lacan, che reputo ricca ma solo tratteggiata. Come vedi, navighiamo ancora nelle acque turbinose della risposta precedente.

Attenendomi a Contro la libertà e alla questione della fine della storia, sin dall’inizio mi schiero con il grande geografo marxista Mike Davis, che vede all’orizzonte dell’attuale nesso tra politica economica neo-liberista e gestione fobica-ghettizzante delle nostre città l’inevitabile dilagare di sommosse e guerriglie urbane a cadenza quasi settimanale, senza però mai abbracciare – ed è ciò che conta a mio avviso – il mito (catastrofico o redentivo, ma comunque reazionario) della commistione post-storica uomo-animale (o uomo-animale-macchina).

Di seguito, apprezzo assai quanto Pasolini sembra suggerire – e non credo sia stato adeguatamente colto – rispetto alla non-unicità, e quindi alla ripetibilità, del fenomeno nazi-fascista in tutta la sua virulenza. La storia non culmina e finisce ad Auschwitz. Tanto che, dal punto di vista decisamente iper-pessimistico di Pasolini, il cosiddetto genocidio antropologico del 1975, operato dal neo-capitalismo consumistico, rappresenta un incremento del nazi-fascismo, ormai capace di omologare universalmente anche il sottoproletariato. Rimango però estremamente perplesso riguardo alla sua contradditoria decisione d’identificare poi proprio il genocidio antropologico con la fine della storia. È questo il groviglio straziante che ci viene presentato attraverso il cortocircuito temporale di Salò: vero 1945 = 1975 = fantasie extra-storiche di Sade. La nuova armata di giovani SS hooliganesche del 1975 coincide in fondo con le vittime seviziate dai gerarchi sadici del 1945, di cui sono complici attivi. A questo punto per Pasolini non c’è più nulla da fare. Conclusione sbagliata. Derivata però da un ragionamento lucidissimo, glaciale perché sull’orlo del pianto, sostanzialmente corretto, che mantiene un devastante potere critico e che oggi verrebbe molto probabilmente censurato. Facile immaginarselo: Pasolini tacciato di antisemitismo dallo stesso establishment liberal-edonistico-repressivo che riteneva responsabile del nazi-fascismo capitalista universalizzato.

La critica al discorso della fine della storia riemerge anche nel saggio su Bene “senza” Deleuze. L’o-scenità del teatro del primo non solo recupera gli elementi anti-storici della storia (l’aion) ma anche, cosa più importante, squalifica la possibilità di servirsene in vista di un Dopo. È il tema iperbolicamente anti-finalistico, solo accennato ma profondo, del futuro che non inizia niente, del futuro in quanto “già il subito dopo della fine”. L’indifferenza allo stato puro: più comica che tragica. Per la quale, da una prospettiva differenziante, basta un peto, un rutto, o la perdita di un capello per passare dal “fiore della vita” alla metastasi. Bene rinviene così nella filosofia politica di Deleuze (e Guattari) un resto escatologico. L’anti-Edipo, la sua produttività rizomatica, la sua inventività schizofrenica – che, solo quarant’anni dopo, tanto paurosamente riecheggiano l’ideologia della flessibilità inventiva e della formazione continua impostaci in questa fase storica dal bio-capitalismo cognitivo – sono innegabilmente partecipi di una fine della storia dove comincerebbe la vera Vita. Per Deleuze, anti-Edipo-il-creativo vive, o meglio con-vive, bartlebianamente da subaffittario serafico, in un campo di definitiva deterritorializzazione capitalista, sovraffollato da servi che comandano altri servi: universo di Kafka sotto l’effetto dell’LSD. Bene lo prende alla lettera, cioè lo prende in giro alla lettera, in modo assolutamente serio, e desublima o deterritorializza a oltranza questa vignetta trasportandola all’interno della psicopatologia della vita quotidiana di un ufficio. Un manager iperattivo, che trae godimento solo dal piacere del lavoro, tortura il divenire-scrivania-posta-telefono-ventiquattrore (democrazia degli oggetti?) di una sputtanatissima segretaria anti-edipica. Per me, sta tutta qui anche la superiorità del S.A.D.E. beniano rispetto al Sade di Pasolini. Diciamocelo: Salò è un inno programmatico al suicidio premeditato. L’ho capito dopo aver visto studenti inglesi ridere guardando le sue scene più devastanti.

Venendo alla tua domanda specifica, credo sia doveroso distinguere una volgare fine della storia postmoderna, di tipo giornalistico-ideologico, dalla molteplice riflessione filosofica sullo stesso tema. Rispetto alla prima, quella di Fukuyama per intenderci, mi pare palese che si rapporti a un certo discorso sulla libertà come all’altro lato della stessa medaglia. La presunta eternità inscalfibile della pax americana capitalista e dei suoi “valori”, che esporta democrazia a suon di bombe intelligenti, sbandiera le pari opportunità solo per coloro ai quali garantisce a priori delle opportunità (per quote dispari), costringe al politically correct per non farci evidenziare in termini inevitabilmente sporchi la sua disonesta politica economica, è nominalmente volta al raggiungimento della libertà per tutti. La storia finisce così per ingiunzione, affinché non possano darsi alternative a questo paradigma – o meglio, alternative di liberazione da questo modello di libertà. Pasolini parlerebbe di falsa realizzazione dei diritti civili volta a forcludere l’antagonismo e a perpetuare indefinitamente lo sfruttamento. Ma, come riconosco nella raccolta, qui ha ragione Slavoj. Tale presunta fine della storia – caduta del Muro di Berlino; dissoluzione dell’Impero sovietico – è finita subito dopo essere stata deliberata: 11 settembre; crisi economica del 2008; populismi al potere (con il Popolo della Libertà a fungere da mediatore evanescente tra i due periodi?); ma anche, per non essere troppo drammaticamente pasoliniani e coltivare cautamente la speranza, risorgenza dell’ipotesi comunista. Continuano a cercare di persuaderci che la storia sia veramente finita (guerra infinita al terrorismo), non c’è dubbio, ma mi sembra che la storiella non faccia più breccia come prima. Anzi, è paradossalmente proprio di fronte a un’inaudita e ben più tangibile serie di sconvolgimenti storici (migrazioni globali di massa; algoritmizzazione, stoccaggio, e vendita di ogni movimento social delle nostre dita; estinzione del 50% di specie animali e vegetali entro i prossimi cent’anni) che continua comunque a esserci storia.

Per quanto riguarda poi la filosofia continentale contemporanea, specialmente se di stampo biopolitico o a esso limitrofo, credo che anche qui vi sia un collegamento abbastanza chiaro tra fine della storia e libertà – sebbene sottaciuto e di certo politicamente opposto, almeno nelle intenzioni, all’ideologia condensata da Fukuyama. In parole povere, l’unica possibile via d’uscita dalla tentata totalizzazione capitalistica, che sconfiggendo e inglobando i totalitarismi del ventesimo secolo continua a imperversare a ritmo di stalli nel ventunesimo, consisterebbe nel disattivarla proprio abitandola come una frangia ultrastorica, o iperstorica, situata tra la storia e la sua fine. A riguardo, il tanto vituperato Kojève gode stranamente di un’ottima salute! Non penso soltanto all’inoperatività e al messianesimo paolino-benjaminiano di Agamben (tanto fine quanto problematico: si legga il saggio proposto in questa raccolta) ma anche, con toni diversi, all’esodo moltitudinario dei post-, o neo-, operaisti (esito fosco – non c’è esodo senza Terra Promessa – di una disamina politico-economica del capitalismo attuale altrimenti impeccabile). In entrambi i casi, si assume che la congiuntura storica in cui viviamo sia straordinaria e terminale. Generalizzazione/universalizzazione dello stato d’eccezione romano e cristiano da un lato; diretto sfruttamento lavorativo delle invarianti naturali, in quanto cognitive, dell’animale umano dall’altro. Virno ha coniato a questo proposito la formula molto efficace del “già da sempre” (natura umana) “solo ora” (bio-capitalismo linguistico). La domanda, forse naif, che mi pongo spesso è: se già da sempre, perché proprio ora? Perché la rivoluzione digitale dovrebbe per forza avere un impatto storico maggiore della rivoluzione industriale – o dell’invenzione della stampa, o dell’inizio della scrittura, o dell’addomesticamento degli animali, o dell’addomesticamento della donna come primo animale domestico (aggiungerebbe la proto-femminista Kuliscioff) – tale da catapultarci nella post-storia? Come mai la vita di un incarcerato di Guantanamo risulterebbe necessariamente più “nuda” di quella degli amerindi sterminati cinquecento anni prima sulla stessa isola? Va però specificato che se Agamben coniuga la fine della storia kojèviana con una certa nostalgia heideggeriana (in fondo meta-storica) dell’“aperto” tradito dalla metafisica nichilistica, Virno invece poggia il tutto su una molto più convincente antropo-logia naturalistica del general intellect.

Concludo prevenendo un possibile malinteso ed esponendomi al contempo a risentimenti che prevedo feroci. Non è che confidi in una strascicata storia infinita, né tantomeno la auspichi. Anzi, quella che Lacan chiamava la “curiosa copulazione” tra scienza e capitalismo – l’esponenziale ma quantunque sconclusionata indifferenziazione tra differenza e indifferenza a cui accennavo sopra a modo mio – potrebbe concludersi in men che non si dica con un’eiaculazione molto breve e altrettanto precoce. Quasi sicuramente nessuno avrà la fortuna di annoiarsi e angosciarsi aspettando la morte del sole tra sette miliardi di anni. L’auto-estinzione della specie è infatti a portata di mano, in modo apocalittico (ecatombe ecologica; olocausto nucleare, dato al 99,995% entro i prossimi 10.000 anni dai teorici dei giochi) o più sedato (presa del potere da parte dell’intelligenza artificiale superavanzata, per la quale non servono fantascientifici robot coscienti e maligni, concorrono gli stessi programmatori e scienziati del calibro di Hawking: basterà presto un semplice collegamento internet). Solo in questo senso avremo sul serio vissuto un unicum storico, senza riuscire mai a raccontarlo. Ma, in modo semplicistico, mi viene da dire che nonostante la melancolia non sia affatto irrazionale (ancora Lars von Trier), finché c’è differenza simbolica c’è futuro, da difendere lateralmente a denti stretti nel presente, dall’interno e a fronte dell’indifferenza dilagante. Cioè niente “snobismi” separatistici e sostanzialmente perversi, o comunità-a-venire teromorfiche (pet-versions?). Date le circostanze non ci vedo assolutamente nulla di liberatorio. A scanso di equivoci: non sto canzonando Agamben (che rimane un pensatore imprescindibile, la cui acutezza ho avuto modo di stimare specialmente traducendolo, anche se non ne condivido le conclusioni) ma una doxa simil-agambeniana onestamente improponibile e infestante. Pensiamo invece a nuovi stili veramente immanenti di significanti-padrone egalitari, universali, e de-totalizzanti, di savoir-faire non contabilizzabile, di consumo non riciclabile della mancanza condivisa che ci in-determina. Come intendeva benissimo Tony Soprano, il capitalismo sta ormai tutto nella gestione dei rifiuti (organici e finanziari, marini e orbitali), ovvero nell’indifferenziazione cumulativa di una raccolta falsamente differenziata.

Più che “umanista”, la mia posizione è in fin dei conti “specista”. Ma non sarebbe assurdo non essere anti-umanisticamente specisti?

Sto discriminando i pesciolini rossi, le tartarughe d’acqua dolce e il silicio? Bullismo inter-specistico? Se ne siete convinti allora anti-discriminazione e crimine assoluto (auto-annichilamento della specie bullistica) coincidono in tutto e per tutto, e allora avrebbe purtroppo ragione il Pasolini trucemente cupo e irrimediabile.

Continuo ad augurarmi non debba essere così.

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