Maurice Blanchot, L’ultimo a parlare

Una dolorosa riflessione sulla poesia di Paul Celan, un «amico» scomparso – e sulla scomparsa stessa –, che ne pronuncia le parole testimoniali con voce «spettrale», all’interno di quell’intima estraneità che abita ogni relazione tra gli uomini e tra i testi che scrivono. Perché, «Signore e Signori», la poesia non è che «questa parola d’infinito, parola della morte vana e del solo Nulla».

Le dernier à parler di Maurice Blanchot è un testo rilevante nella sua produzione critica – termine da impiegare sempre con grande cautela per un autore la cui «vita [è] interamente consacrata alla letteratura e al silenzio che le è proprio» – e nel panorama degli studi celaniani. È stato redatto nel 1972, per un numero monografico de «La Revue de Belles-Lettres» dedicato a Paul Celan. La rivista svizzera francofona che esce a Ginevra a cura della Società di Belle Lettere di Losanna, Ginevra, Neuchâtel e Friburgo. E che, ora come allora, costituisce il principale riferimento per la vita letteraria di lingua francese nella Confederazione. Particolarmente orientata verso l’area tedesca, ha rappresentato nel tempo una sorta di ponte tra le principali regioni linguistiche del paese, quasi a rifletterne l’immagine geografica.

Dagli inizi degli anni ’60 insegnava a Ginevra Bernhard Böschenstein, figura considerevole della germanistica, lettore ad amico di Paul Celan; sopra tutto promotore della conoscenza e dell’opera del poeta, tanto in Germania quanto in Francia. John E. Jackson, giovane studioso americano di origine svizzera, ne era stato allievo dal 1964, formandosi sui testi del poeta. Nel 1967, assistendo a una lettura pubblica di Celan, presso il seminario di Peter Szondi alla Freie Universität di Berlino, ne restò – come racconta lui stesso – letteralmente «folgorato». Negli anni successivi, sempre grazie a Böschenstein entrò personalmente in contatto con Paul Celan, dialogando con lui a più riprese sulle possibilità di traduzione dei suoi poemi – fino alla morte del poeta nel maggio del 1970.

In seguito a quest’evento, Jackson, già collaboratore de «La Revue de Belles-Lettres» dal 1968, propose al capo redattore, Rainer Michel Mason, un numero speciale su Celan, articolando il progetto in tre sezioni: testi in prosa, poemi e studi, allo scopo di far conoscere il poeta e di misurarne la risonanza dell’opera presso altri scrittori contemporanei. Mason accolse il progetto e si occupò del lavoro materiale di composizione, invitando a partecipare, con acquerelli e disegni, anche artisti come Bram van Velde e Pierre Tal Cot. La stessa vedova di Celan, Gisèle Celan-Lestrange – che in seguito giocherà un ruolo decisivo rispetto alle sorti delle pubblicazioni del e sul marito – collaborerà con quattro incisioni. Aderirono anche alcuni poeti francesi che Celan aveva conosciuto – frequentandoli durante l’esperienza redazionale de «L’Éphémère» – e che avevano dato il proprio contributo di traduttori alla pubblicazione del suo primo volume in francese: Strette, per le edizioni del Mercure de France nel 1971. André Du Bouchet, Jean Daive, Henri Michaux, Jacques Dupin, assieme a giovani poeti tedeschi quali Franz Wurm, Ilse Aichinger, Günther Eick. Nondimeno, la parte più cospicua della rivista è occupata dalle traduzioni delle poesie di Celan, a cura di Jackson e Mason: trentadue poemi e due testi in prosa – che rappresentano la più ampia scelta in lingua francese dopo Strette.

Dalla Postfazione di Mario Ajazzi Mancini

Recensioni

201902giu2:00 pmBlanchot, tragitto mimetico nel silenzio di Celandi Pasquale Di Palmo2:00 pm il manifesto, RomaRassegna stampa:L

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