La trasgressione consente l’accesso al godimento. Ma fino a che punto? Fin dove è possibile godere? Potremmo dire che ogni godimento è innanzitutto godimento mortifero? Qualsiasi trasgressione sarebbe cioè dannosa al punto da rivelare che occorre mettere a repentaglio la propria vita per poter godere?
La trasgressione rimanda all’infrazione, al disordine, alla libertà. Ma, paradossalmente, questa libertà è subordinata alla legge. La trasgressione è una possibilità offerta dalla legge stessa, nient’affatto la sua negazione. La legge continua ad esistere anche se non viene rispettata, non si annulla nel movimento che implica la sua trasgressione. È nel rapporto, rischioso e aporetico, fra trasgressione e legge, vale a dire fra trasgressione e castrazione, che il soggetto lotta per uno spazio di godimento possibile.
La trasgressione attraversa i concetti fondamentali della psicoanalisi: inconscio, desiderio, fantasma, godimento, pulsione, sintomo, struttura, parola. L’autrice ne esplora le differenti sfaccettature alla luce degli apporti di Bataille e Lacan, sottolineando i punti di convergenza e divergenza del pensiero di questi due autori.
La passione della rinuncia
La donna può rifiutare di farsi amare.
La donna che rifiuta di farsi amare sacrificherà il suo amore sacrificando l’oggetto del suo desiderio: può rinunciare all’uomo che ama, che desidera, all’uomo che la fa godere, o anche arrivare, in casi estremi, a ucciderlo. Sceglie di uccidere il suo amante piuttosto che restare con lui, ma non per vendetta o perché abbia subito qualche torto da parte sua. Perché dunque uccidere l’amante, quando la passione di quest’ultimo si dichiara apertamente, quando non ci sono più ostacoli, quando quel che era solo un sogno sembra realizzarsi? Di fronte alla felicità dell’amore, la donna si ritira, rifiuta il suo oggetto, risponde “no” all’amore del suo amante. Perché non vuole più saperne di quest’amore?
L’uomo, fino ad allora impossibile, o che la faceva soffrire, decide finalmente di “garantire” il suo amore: matrimonio, impegno ad una vita in comune, promessa di felicità. Allora il “no” della donna può prendere la forma, l’intensità, l’enormità dell’assassinio, l’assassinio dell’uomo amato.
Il “no” della donna non è causato da un calo, o da una scarsità, di sentimenti: al contrario, lei uccide perché ama, al più alto, più appassionato dei gradi possibili. Come se l’assassinio le permettesse di ibernare il suo amore per sempre: la perdita è il solo modo di conservare l’amore e l’amato ad un tempo, per sempre.
Si tratta di un delitto a bersagli multipli: l’amante, il padre e il desiderio della donna sono bersaglio dell’azione, tanto quanto la sua femminilità.
Il sacrificio dell’oggetto d’amore rappresenta una volontà di perdita dell’altro e di sé: la morte abbraccia tutto. Fine di ogni godimento possibile. Per il sacrificato, evidentemente, come per il sacrificante.
Guardando l’ultima parte del film Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, quando Jeanne (Maria Schneider) rifiuta l’amore di Paul (Marlon Brando) dopo aver dichiarato il suo amore per lui e pianto la sua precedente partenza, non si comprende il suo gesto: perché ucciderlo? La spiegazione femminista consiste nel pensare che egli abusasse di lei e che l’assassinio rappresenti la vendetta della donna nei confronti dell’uomo sfruttatore e violento. Questa conclusione, per quanto sicuramente sostenibile, non ci soddisfa. Perché Jeanne avrebbe tollerato, e addirittura voluto, una relazione basata esclusivamente sul sesso, e rifiuta in seguito una vera relazione d’amore? È quando l’uomo le offre il suo amore che lei lo rifiuta e lo uccide.