Tuttavia, c’è mai qualcosa come un tramonto? La stessa nozione di tramonto non costituisce, di per sé, una maschera di trasformazione? Il tramonto potrebbe essere la metafora del superamento dialettico (reléve dialectique), il celebre crepuscolo che, alla fine della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, decide il decollo del senso. In quest’ottica, la formula: “la plasticità al tramonto della scrittura” potrebbe lasciar pensare che la plasticità sia il superamento dialettico dello schema motorio della scrittura. Ma il tramonto può anche segnare l’inizio dell’insonnia, lo stato malinconico in cui piomba la psiche di colui che non riesce ad elaborare la perdita dell’oggetto perduto, quando il lutto, letteralmente, non viene superato (ne s’en relève pas). Freud descrive la malinconia come una notte interminabile:
L’insonnia tipica della melanconia testimonia la rigidità di questa malattia, l’impossibilità di effettuare quel ritiro generalizzato degli investimenti che è necessario affinché si instauri il sonno. Il complesso melanconico si comporta come una ferita aperta che attira su di sé da tutte le parti energie di investimento […] e svuota l’Io fino all’impoverimento totale; tale complesso può facilmente dimostrarsi refrattario al desiderio di dormire proprio dell’Io.
Pertanto, il tramonto della scrittura potrebbe essere inteso come la fine impossibile della scrittura e la plasticità, dal canto suo, come ciò che infinitamente apre la ferita di un lutto interminabile, di una prova insuperabile. Il tramonto allora segnerebbe, tra il lutto riuscito e il lutto mancato, il tempo della veglia funebre e del defunto che non smette di ritornare (revenir): «Questo wake, questa gioiosa veglia funebre […] è il doppio momento di una “promozione” e di una “morte […]”, di una promozione della morte». La scrittura, soggetta a sostituzione, morta per sublazione plastica (relève plastique), farebbe nondimeno ritorno – altra, rinvigorita, promossa speculativamente.
Il tramonto può indicare inoltre una configurazione geografica e non soltanto temporale. È alla sera che Lévi-Strauss pensa quando giunge – pertanto in pieno giorno – nella regione triste, finanche malefica, della “Fossa nera”, nelle acque al Sud dell’Atlantico. Una regione che, per via del suo aspetto, richiama il declino a un tempo «naturale e sociale» a cui il nuovo mondo è e forse sarà sempre destinato:
I venti dei due emisferi si arrestano dall’uno e dall’altro lato di questa zona dove le vele pendono per settimane senza che un soffio le animi. L’aria è così immobile che ci si crederebbe in uno spazio chiuso, piuttosto che in alto mare […] Fra queste superfici così vicine, il piroscafo scivola con una specie di fetta ansiosa, come se avesse il tempo misurato per sfuggire a quel soffocamento […] Il cielo fuligginoso della Fossa nera, la sua aria pesante non sono soltanto segni manifesti della linea equatoriale. Sono l’atmosfera nella quale due mondi si sono confrontati.
Il tramonto, l’oscurarsi del cielo, appare qui come la linea di partizione iscritta nel cuore della terra che separa due mondi, l’incupimento di un addio senza sollievo, del passaggio all’altro sullo stesso suolo. Tra scrittura e plasticità viene forse a delinearsi la frontiera oscura che decide il destino dei due mondi nel mondo. La simultanea impossibilità di tagliare la rotta e di superare l’ostacolo.
In un certo senso, c’è troppo tramonto in questo tramonto. Ed è vero che troppi confronti vesperali sembrano aver sfinito la filosofia. Molto spesso, tutto dà a pensare che non si muova niente, che la nave se ne stia ferma, le vele pendenti. Sembra anche che ai filosofi non rimanga altro da fare che dispiegare all’infinito – tra il lutto e la malinconia, tra il superamento dialettico e il ritorno dello spettro, presenza di frontiera inafferrabile in seno ad una “Fossa nera” mondializzata – i volti differenti di una maschera di trasformazione che non rivela niente, che non dice più niente, che non fa che mostrare l’enigma silenzioso dei suoi profili.
Malgrado tutto, stanca dei lamenti, stanca delle aporie, stanca anche delle minacce di risentimento o del cattivo infinito, ho intravisto la possibilità di una gerarchizzazione dei volti, di una messa in rilievo della superficie (aplat) della maschera. Ho visto apparire qualcosa come un nuovo schema motorio, come il complice di una nuova epoca, come una bussola che potrebbe aiutarmi a trovare il cammino tra i discorsi molteplici del tramonto e della fine, i quali da sempre altro non sono che patti che i filosofi stringono tra loro.
Se questi discorsi – lutto, malinconia, superamento (relève), tristezza di frontiera tra due mondi nel mondo – ancora mi accompagnano e sempre lo faranno come la mia ombra, credo che, seguendo il filo della plasticità, si apra per me la possibilità di accedere a un altro tramonto o quantomeno a un altro senso del tramonto stesso. Heidegger non dice forse che il significato profondo del tramonto risiede nella metamorfosi?