Ritrovato nell’archivio di Maurice Blanchot dopo la sua morte nel 2003, Thomas il solitario può essere considerato a tutti gli effetti il primo romanzo – rimasto inedito fino a oggi – di una delle figure più singolari del panorama intellettuale francese del ’900. Scritto verosimilmente durante gli anni 1931-1937, il romanzo costituisce l’originaria versione di Thomas l’oscuro preservando tuttavia una struttura narrativa del tutto compiuta e autosufficiente. Verificato sul manoscritto e sul dattiloscritto dell’autore, Thomas il solitario rappresenta indiscutibilmente un documento di centrale importanza in cui i lettori (vecchi e nuovi) di Blanchot potranno assistere al lento tratteggiarsi di un romanzo (e forse, più ancora, di una scrittura) che continua a brillare come insuperato tentativo di contravvenire alle regole più o meno consolidate della narrazione. Le vicende di Thomas, il protagonista, s’intrecciano con quelle di altre figure (come Anne o Irène) in un gioco di metamorfosi che sembra rievocare l’originarsi stesso della vita dell’universo insieme alla sua strenua lotta con la morte. Sconcertante e unico, Thomas il solitario non si lascia classificare con facilità e impone al lettore l’abbandono di qualunque pretesa di raccogliere in unità il senso di una storia sempre in fuga da se stessa, sempre al di là dei suoi stessi confini, sempre condotta sul filo di un abisso di cui restituisce magistralmente la vertigine.
Già nel corso della stesura di Thomas il solitario, lunga, faticosa elaborazione che in un certo ‒ enigmatico ‒ senso si compirà solo con Thomas l’Obscur, il primo romanzo pubblicato, è possibile affermare con certezza e senza enfasi che Blanchot, come il Mallarmé di Brise marine, ha letto tutti i libri. Si potranno dunque cercare (e in parte è stato fatto) influenze e richiami, acque madri e atmosfere, perfino calchi che trasformino Thomas il solitario nel prisma che raccoglie e proietta, scomponendoli, i raggi del paesaggio narrativo della prima metà del Novecento, e dunque individuare la presenza di Kafka, Proust, Mann, Nietzsche, Lautreamont e poi Sade, il surrealismo (Leiris), e ancora tanti altri nomi presenti ormai nell’Olimpo (sempre avvolto da nubi, è opportuno sottolinearlo) di quella stagione culturale europea che per taluni è alle nostre spalle, per altri è ancora in corso e per altri ancora ha appena cominciato a rilasciare l’energia atomica che portava (più o meno consapevolmente) dentro di sé e di cui oggi si tratta di misurare la radioattività.
Christophe Bident, uno dei lettori più “sintomatici” di Blanchot, ha scritto che l’immagine di un Blanchot critico della letteratura che si sarebbe dedicato anche alla scrittura di romanzi deve essere rovesciata, e che piuttosto, «[…] l’opera di Blanchot è quella di uno scrittore la cui funzione critica non è mai stata altro che quella di raddoppiare la creazione di finzione, di ombreggiarla, di scovarne i meandri, di disfarla per meglio assicurarne l’identità»: non, dunque, due Blanchot o due opere, quella narrativa e quella critica, ma un medesimo movimento di scrittura che nel suo proteiforme articolarsi, nelle voci che ne scandiscono il procedere, non smette di s-comporle una a partire dall’altra in nome di un’esigenza che sfonda (anche violentemente) ingressi e ambienti e che, letteralmente, risorge sopra le sue stesse macerie. Numeroso il coro di queste voci o delle modulazioni di una scrittura che, ancorché pertinenti, gli studi critici possono collegare a intenzioni o autori, nozioni (“neutro”, “fuori”, “disastro”, …) o idee e che hanno attirato l’attenzione di alcuni tra i principali filosofi francesi del nostro tempo (bastino qui i nomi di Levinas, Foucault, Derrida), sempre tenendo presente il monito di Levinas quando dichiara che «far entrare l’opera di Blanchot in un discorso filosofico, è chiarirlo sia con ciò che se ne dice, sia con ciò che non si può dirne», come pure non meno numeroso il coro di quanti (si pensi a Roland Barthes), hanno provato a neutralizzarne l’importanza attraverso la sottolineatura dell’unicità del percorso: Blanchot rimane, in ognuno dei testi che ha pubblicato, l’ospite inatteso nei confronti del quale l’accoglienza non è mai disgiunta da una punta di sospetto o, in ogni caso, di timore. Un’attenzione critica che però, come ha scritto acutamente Jean Starobinski, è destinata a non esaurirsi nelle ipotesi che produce, perché l’opera di Blanchot (in tutte le sue modulazioni) «oltrepassando costantemente se stessa, ci lascia sempre al di qua del punto più lontano in cui avanza e non offre alcuna presa a una riflessione che vorrebbe assumerla interamente sotto il suo sguardo e considerarla tranquillamente dall’esterno. Essa sfugge perché va più lontano».
Dall’Introduzione di Silvano Facioni