Giovanni Gentile, il maggior filosofo italiano del primo Novecento, è da dimenticare, come taluni vorrebbero? Per nulla, bisognerebbe rispondere. L’apparato categoriale da lui costruito genialmente, nonostante la sua (relativa) semplicità speculativa, è forse la maggiore leva di forza per intendere ancora il nostro tempo. Anche quello della Rete e dei “social network”, dove trionfa un contenuto sterminato che Gentile avrebbe sicuramente relegato nel ruolo di “pensiero pensato”.
Il fatto è che Gentile, ostracizzato per i suoi legami con il fascismo, tutto sommato estrinseci, ci appare oggi, una volta smaltite le nebbiose e spesso ingiuste polemiche nel dopoguerra intorno alla sua eredità intellettuale, come il Maestro insuperato della grandezza del “pensiero pensante”. E anche come colui che offre ancora le ragioni più profonde per intendere appieno la natura inviolabile della nostra umana dignità.
Questo libro, soprattutto dedicato alla logica e alla religione di Gentile, non è tuttavia un’apologia dell’attualismo; ché anzi l’attualismo sottopone ad una analisi serrata e senza sconti di sorta, per indicarne “ciò che è vivo e ciò che è morto”.
Il colpo di genio
L’intuizione geniale di Gentile sta tutta nella lucida messa a tema della trascendentalità e quindi dell’intrascendibilità (o inoltrepassabilità) dell’orizzonte del pensare (che Kant aveva già in qualche modo avvistato) – grande teorema della modernità (la cosiddetta “immanenza”). Teorema incontrovertibile, certo, ma solo se rettamente inteso, cioè solo se inteso come posizione dell’orizzonte trascendentale della manifestazione di tutto ciò che è. Impossibile, infatti, porre in modo immediato qualcosa al di là del pensare, perché, ponendolo, lo si pensa.
Meno interessante, anche se più impressionante, la forte valorizzazione gentiliana di quel che dalla trascendentalità del pensare è strutturalmente implicato: ossia il “dialettismo” o la “mobilità”. Si tratta in fondo di un’eredità hegeliana. Ma poi è da dire che è propriamente la saldatura delle due figure (trascendentalità e dialetticità), il vero colpo di genio gentiliano. Anche perché la “mobilità” del pensare consta e rafforza perciò, di rimando, la trascendentalità, che invece andrebbe argomentata (elenctice), pur essendo un che di immediato. Certo, la mobilità, se rafforza la prima intuizione, è poi nell’attualismo la parte meno difendibile, se intesa, come Gentile la intende, in termini di “produzione” dell’oggetto reale o di una sua “creazione”. La quale, invece, non consta affatto. Semmai, consta la nostra “impotenza” di pensanti rispetto all’oggetto reale pensato: entra ed esce, l’oggetto reale, dallo specchio della manifestazione senza chiedere permesso alcuno.
Per chiudere questo giro di discorso: la coniugazione della teorematicità del primo assunto (l’intrascendibilità del pensare) con la nota esperienziale del secondo (la mobilità o il dialettismo) – il colpo di genio del Gentile – fu forse, per contrappasso, anche responsabile del terzo assunto appena richiamato, ossia dell’assunto della “produttività” o “creatività” trascendentale dell’atto (né teorematica né esperienziale). Questo però non si intenderebbe senza il richiamo alla storia della modernità filosofica: alle spalle di Gentile c’era quel tratto di filosofia tedesca (da Kant ad Hegel) che aveva iniettato gradualmente nell’io (trascendentale) gli attributi una volta predicati del divino.