Stockhausen, Von Trier, De André

Un po’ di tempo fa, all’inizio degli anni ’70 suppergiù, si usava una definizione che oggi mi sembra mirabile: una “persona intelligente”. Quando si conosceva qualcuno, lo si introduceva fra gli amici approvandolo col dire: “Sì, è una persona intelligente”. La disamina della definizione era abbastanza complessa. Una “persona intelligente” – lo scrivo sempre fra virgolette per evidenziare la sfumatura d’epoca dell’espressione – era aperta, colta, senz’altro di sinistra ma meglio se non della sinistra parlamentare, tendenzialmente anarchica, eticamente illuminata, capace di attribuire significati inediti a letture consuete, accogliente, dotata di senso dell’umorismo, conscia del dolore e della propria fallibilità, capace di consolare (perfino misericordiosa), del tutto fiduciosa nell’uguaglianza di tutti gli uomini, e via dicendo.

In realtà eravamo giovani confusi, ci credevamo comunisti quando, per fortuna, si abbracciava invece una sorta di fondamentalismo cristiano unito a un socialismo pascoliano: ricordo che io stesso, alle assemblee allora numerosissime, asserivo sempre: “I vostri discorsi sono inutili, l’unica cosa che conte è essere buoni!”

Intanto la vita proseguiva con le sue laceranti, spesso inguaribili delusioni e ferite; anzi, con la sua ovvietà, la sua tristemente prevedibile uniformità. Gruppi di persone sempre meno individualizzate e sempre più plumbee – prima di tutto la maggior parte degli insegnanti, poi la maggior parte dei genitori, e via via ahimè, dolo tremendo, anche molti amici e infine praticamente tutti – tarpavano con roncole spuntante ma decisamente ultrici le nostre aspirazioni e la nostra vita. E accadeva quindi che la certezza circa l’uguaglianza di tutti gli uomini cominciasse a vacillare. Come potevano personaggi stupidi, fanatici, ignoranti, ignari del proprio sé, essere uguali alle “persone intelligenti”? Alcuni di noi attribuivano a questo dubitare il germoglio di una radice di destra se non addirittura fascista. Ma, tant’è, il dubbio rimaneva ed era fondante. Si cominciava inoltre a ipotizzare se gli uomini non potessero sì essere tutti uguali, ma soltanto per il santo, per chi ha un ruolo soterico. Del resto, artisti come Calvino, Gadda, Visconti, Pasolini ci presentavano un mondo in cui l’individuo sovrastava la massa con l’ingegno neo-illuminista; con la lacerante e straordinaria esplosività della propria unica nevrosi; con la nobiltà d’animo – e di stirpe addirittura! – del Principe di Salinas e del professore di “Gruppo di famiglia in un interno”; con la tragica soggettività antiborghese, tutta odio per l’uomo comune, di Accattone, Cristo, Edipo. Appariva dunque chiaro, per le “persone intelligenti”, quanto la massa cominciasse davvero a poter essere interpretata con la sua stessa degenerazione; non più gruppo di soggetti, ma “plebe”, come la definisce Hannah Arendt. Per noi era un bel problema, visto che un po’ credevamo ancora che il comunismo sovietico non fosse, come Shostakovich sosterrà per tutta la vita, uguale al nazismo.

Propongo adesso, dopo l’esposiazione dei temi dell’articolo e all’inizio del suo sviluppo, un gioco spazio-temporale, e eleggo a giudici di tre fenomeni verificatisi una decina di anni fa alcune delle “persone intelligenti” che credevamo di essere negli anni ‘70. Si badi bene: chi di qui in poi argomenterà, saranno quegli ex-ragazzi, magari un po’ presuntuosi perché convinti di cambiare il mondo, quelle scombussolate individualità che ora non posso non amare, e nessun altro.

Riporto prima di tutto un articolo di un giornale di poco successivo all’11 settembre 2011:

Le macerie delle Torri Gemelle ancora fumavano quando fece il giro del mondo spaventato una frase di Karlheinz Stockhausen: l’attentato era stato «la più grande opera d’arte possibile dell’intero cosmo». Ovviamente scattò immediata l’indignazione collettiva. Però quell’uscita sembrava esprimere perfettamente il senso reale di tutta l’arte post-moderna, raccogliere l’intera eredità dadaista e strutturalista, il tentativo di cancellare la componente umana e la preoccupazione morale dal centro dell’espressione artistica.

A partire da “Però quell’uscita” la notizia e il commento naufragano nell’incoerenza. Il dadaismo e le correnti post-moderne non hanno mai voluto cancellare un corretto indirizzo etico dell’arte, mentre dello strutturalismo non si occupò neppure.

Un altro pezzo di giornale, del 19 maggio 2011. Al Festival di Cannes quell’anno Lars von Trier dice: «Per molto tempo avevo pensato di essere ebreo ed ero felice di esserlo… Poi ho capito di essere nazista, la mia famiglia è di origine tedesca… E anche questo mi fa un certo piacere. Che posso dire? Hitler lo capisco, ha fatto molte cose brutte, sbagliate, ma provo un po’ di simpatia… Non voglio dire che sono a favore della seconda guerra mondiale, e non sono contro gli ebrei… Ma è vero: sono nazista. E siccome noi nazisti facciamo le cose in grande, pensiamo alla grande, potrei fare il film La soluzione finale».

L’ultima testimonianza è di Fabrizio De André, degli appunti per un concerto raccolti in un testo di nove anni successivo alla morte del cantautore:

Nel 1989 mi venne da scrivere qualche canzone sull’attualità: mi succede all’incirca ogni sei anni. La classe dirigente politica era intortata con quella economica, entrambe sembravano colluse con le organizzazioni criminali. Il pensiero del borghese medio si esprimeva più o meno così: “Un’ingiustizia (tipo la corruzione dei giudici e dei finanzieri) se dà un profitto a me la chiamo fortuna, se il profitto lo ricevono i miei simili lo chiamo scandalo”. Intorno a questo minuetto la gente normale cercava lavoro e cominciava a non trovarlo. Il motivo è semplice: un’economia di mercato libero, che in effetti si chiama economia capitalistica, si regge su una regola morale: “L’azienda che profitta vive, l’azienda che non profitta crepa”. Se questa nobile massima la estendiamo dalle aziende alle persone decretiamo la morte per inedia o per suicidio di milioni di esseri umani. Questo mi dicevo dieci anni fa. Mi dicevo che sarebbe stata utile una rivoluzione sociale, non politica, sociale. E visto che nessun esponente della nostra classe politica manifestava anche soltanto l’intenzione di approcciarla, tanto valeva affidarne il compito alle organizzazioni criminali. Evidentemente la mia era una provocazione ma oggi, di fronte all’atteggiamento di alcuni esponenti politici, quella che sembrava una provocazione sta sembrando una realtà. Nel frattempo è meglio lasciar fare a mafia e camorra. Almeno le regole quelle ce le hanno e, almeno fino a pochi anni fa, erano pure capaci di rispettarle.

Stockhausen, Von Trier e De André decidono di sconcertare l’umanità, per “scandalizzarla”, dicono coloro che si ritengono colpiti e offesi. Per ottenere questo effetto i tre artisti hanno bisogno di servirsi di uno strumento semplice: non a caso l’umanità – sono sempre le “persone intelligenti” degli anni ’70 a parlare – è in gran parte composta da imbecilli, pronti alla violenza morale e fisica. Stockhausen, Von Trier e De André parlano però a un’umanità sedicente, acculturata, che tutto sommato è la peggiore perché si sente autorizzata a manipolare il sapere artistico ed etico. Stockhausen fa allora sua la causa, socialmente del tutto invisa e interdetta, del terrorismo islamico; Von Tier, ancora peggio, giustifica ciò che è riuscito ad assurgere al peggio della storia, i campi di sterminio; De André approva il fenomeno criminale più noto in Italia, la mafia. Ma in questi tre gesti, che poi sono un gesto unico, non è difficile vedere una risposta – volutamente assurda ma indignata – contro la stupidità delle cultura di massa, il suo disfacimento, il suo corrompere l’intelligenza. “Voi ci proponete la vostra abiezione, la vostra volgarità intellettuale?” sembrano dire i tre artisti. “Allora noi, seguendo le vostre orme, facciamo ancora qualcosa di peggio. Magari, dalla provocazione, trarrete un insegnamento”. L’atteggiamento sfoggiatamente disumano dei due musicisti e del regista deriva non solo dalla necessità di una protesta, ma è un gesto di difesa. Le poche “persone intelligenti” sono detestate dalla massa, che vede in loro non tanto un pericolo effettivamente nazista, terrorista, mafioso, quanto un ben più inquietante – per essa – incitamento all’azione meditata, al cambiamento consapevole, all’impegno e alla speculazione, all’uso della fantasia e allo scavo pericoloso ma forse salvifico nella propria psiche. Sempre più minacciata da un’idiozia organizzata e pronta a farsi fascismo e nazismo effettivi, l’eccezione di cui Stockhausen, Von Trier e De André sono controversi portatori, nel separarsi da chiunque con affermazioni apparentemente mostruose, dimostra anche il coraggio, stanco ed esasperato, di aizzare a un odio palese la plebe che già li odia più o meno palesemente.

Il risultato di tutto ciò, impavido e desiderato, è quello di scavare una fossa protettiva sempre più profonda fra le “persone intelligenti” dell’immediato passato e del presente, fra le loro precarie abitazioni, i rifugi dove sono costretti a ripararsi, e il resto del mondo omologato. I tre artisti fanno in realtà delle loro provocazioni degli specchi, in cui più si riflette chi più vi si accanisce contro.

Fernando Vincenzi

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