Tra qualche giorno (il 30 novembre) uscirà il terzo e ultimo capitolo della trilogia Smetto quando voglio e mi sono accorto di far parte dei tanti che lo aspettano. Una prima motivazione per questa attesa è fin troppo ovvia: i primi due film erano divertenti, perché non dovrebbe esserlo anche il terzo, visto che è all’opera la stessa squadra, dal regista agli sceneggiatori, dal produttore al cast degli attori? L’attesa sarebbe dunque della serata spassosa che sembra assicurata. In realtà, confesso che c’è anche una seconda ragione per cui sono curioso di vedere come Sydney Sibilia concluderà il discorso che ha aperto tre anni fa girando il primo film. Per spiegare quest’altra ragione, però, devo innanzitutto provare a rispondere a chi avrà forse storto il naso sentendomi parlare di questa piccola saga come di un discorso. Non eravamo d’accordo che si tratta principalmente di un’opera divertente, fatta per distrarsi e staccare la mente?
Si dice che a pensar male si indovina quasi sempre. Per vedere che non è affatto così, proviamo per un momento a pensar male di chi sta dietro alla nostra trilogia. Pensarne male significa qui assumere un punto di vista cinico. Diremo allora che un giovane regista salernitano al suo primo lungometraggio ha azzeccato il soggetto, ci ha costruito su una buona sceneggiatura e ha trovato dei produttori che gli hanno fornito gli attori giusti: il film ha fatto successo ed è stato bene accolto e a questo punto è partita la solita macchina dello sfruttamento esasperato. Squadra che vince non si cambia, si tratta solo di farla giocare di nuovo. Non uno, ma due sequel girati quasi contemporaneamente. L’essenziale c’è già, basta inventare qualche altra avventura e qualche altra situazione comica per la simpatica banda dei ricercatori universitari. Hanno allungato la minestra, conclude il cinico, costruendo addirittura tre film sull’unica idea avuta all’inizio: poco sforzo creativo, guadagno sicuro e pubblico contento. Non è forse la formula delle serie tv? Trovata una buona idea si offre al pubblico la possibilità di continuare a goderne, ancora e ancora. La ripetizione del godimento già sperimentato.
“Ti risparmio tutti i discorsi che potrebbero sorgere sul piano etico perché io, il piano etico, l’ho abbandonato quando mi hanno preso per il culo all’università”
Non sostengo che non ci sia nulla di vero in quel che il cinismo ci racconta, vorrei però suggerire che questo racconto ci rende invisibili molte altre cose, di gran lunga più importanti. Il cinico che accusa Sibilia, gli sceneggiatori e i produttori di avere giocato al ribasso dedicandosi ai due sequel, di sfruttare troppo facili godimenti senza inventare niente di nuovo, sta di fatto facendo di peggio: il cinismo nutre passioni ancora peggiori di quei godimenti, cioè il risentimento, il piacere della critica generica, il compiacersi nella posa della lucidità. E soprattutto distoglie la nostra attenzione dall’enorme trasformazione che è avvenuta tra il primo e il secondo film. In realtà, Smetto quando voglio – Masterclass non è affatto una ripetizione del precedente. Non basta notare che gli stessi personaggi, negli stessi ambienti, vivono avventure che sono un po’ diverse. No, nel secondo film cambiano le coordinate simboliche dell’azione. Si tratta davvero di una complicazione del discorso.
Smetto quando voglio, il primo film, si colloca nella tradizione delle versioni comiche dei film con il colpo grosso (in gergo: caper movie), tradizione che include ad esempio La banda degli onesti, celebre film del 1956 con Totò e Peppino De Filippo, e I soliti ignoti, film ancora più famoso, del 1958, con Gassman e Mastroianni. Anche nel film di Sibilia, ad organizzare il colpo sono dei “criminali” del tutto improvvisati: sono ex ricercatori universitari le cui ricerche non sono state più finanziate e che, per vivere, devono arrangiarsi con lavori che sono molto al di sotto delle loro qualifiche (ad esempio, Alberto, “il chimico computazionale più quotato d’Italia”, lava i piatti in un ristorante cinese, Mattia e Giorgio, “due latinisti di fama internazionale”, lavorano di notte in una pompa di benzina). Quanto poi al “colpo”, non consiste in una rapina, come nel film del ’58, né nella stampa e nello spaccio di banconote false, come nel film del ’56, bensì nell’invenzione, nella produzione e nello spaccio di una droga non ancora classificata come illegale; anche qui, comunque, come negli altri due film, alla fine il colpo non riesce davvero, o meglio, riesce per qualche mese, giusto il tempo per mettere la banda nei guai, guai con i signori del narcotraffico romano e con la polizia.
Al di là della somiglianza, a livello della trama, con quelle due pietre miliari della commedia all’italiana, c’è un’altra cosa che ha portato molti critici a trovare in Smetto quando voglio i segni di una rinascita di questo genere cinematografico. Il punto è che tale forma di commedia è caratterizzata dal trattare in maniera leggera e umoristica temi drammatici ed è proprio questo che ritroviamo nel film di Sibilia. E il tema drammatico non è genericamente il precariato o la disoccupazione giovanile, ma il precariato e la disoccupazione (o la sottoccupazione) dei ricercatori universitari. Non semplicemente coloro che hanno frequentato l’università o si sono laureati, ma coloro che hanno continuato gli studi, mettendo in piedi ricerche, scrivendo libri e saggi pubblicati in Italia o all’estero, reinvestendo energia e creatività nell’università e che poi si sono trovati abbandonati per “scarsità di fondi” o perché sopravanzati da qualche raccomandato. Smetto quando voglio fa certamente ridere in tantissimi momenti, ma la scena in cui Pietro, tornato a casa dopo aver appreso che, nonostante la sua innovativa ricerca in biologia molecolare, non avrà il rinnovo del contratto, si siede sul letto e si mette a piangere è una scena che fa stringere il cuore. Io conosco bene quell’esperienza. Pietro non piange solo perché non potrà comprare la lavastoviglie chiesta dalla sua ragazza, né perché non sa come pagare la sua quota per l’ascensore condominiale. E, a dire il vero, non piange neppure solo per la vergogna o il senso di fallimento che certamente prova pensando a quando dovrà dare la notizia alla sua compagna. Non è che queste cose non abbiano alcuna importanza: sono certamente importanti, ma non sono il fine rispetto a cui il resto è solo un mezzo. Il contratto rifiutato non era solo un mezzo per avere i soldi per compare cose necessarie e cose superflue, né solo un mezzo per ottenere un qualche riconoscimento sociale o perlomeno per evitare lo stigma della disoccupazione. Quel contratto era la condizione di possibilità per continuare la ricerca, per concludere o proseguire un lavoro a cui aveva dedicato ben più di quanto pattuito nel contratto precedente. Era un lavoro in cui non ne andava solo della sua sopravvivenza materiale, ma di una parte importante del senso della sua esistenza. Ad un certo punto, quello che la ricerca ti chiede, non lo paga lo stipendio o una borsa di studio e neppure la prospettiva di un qualche onore o riconoscimento. Lo paga solo la vocazione. In questo senso c’è un’altra scena commovente, sebbene girata in maniera leggera: quando Alberto, dopo mesi e mesi come lavapiatti, torna, di notte, nel laboratorio dell’università (per sintetizzare la nuova molecola), si ferma e si guarda intorno e, nonostante il modo in cui è stato defenestrato, non riesce a non dire: “Quanto mi è mancato ‘sto posto!”. Non basta volerlo, per smettere di amare ciò che si fa per vocazione.
Il contratto serve innanzitutto a non dover sopprimere tale vocazione. Per questo Pietro piange, perché sa che dovrà soffocare la sua vocazione e tutta l’energia che gli dava. Un’energia che non restava chiusa in lui: la sua ricerca, come quella degli altri, non era solo un suo giocattolo. Era parte di progetti riconosciuti, che hanno una storia e un valore che li rende, in maniera più o meno diretta, un bene comune. I resti archeologici di Roma, di cui si prende cura Arturo, la molteplicità culturale studiata da Andrea, la cultura latina approfondita da Mattia e Giorgio, come la ricerca biologica di Pietro o quella chimica di Alberto sono parte di quello che giustamente chiamiamo il “nostro sapere” appunto perché non è solo loro. E Pietro piange anche per questo: non tanto per la lavastoviglie, né per il senso di sé, ma neppure solo per la sua ricerca intesa come affare suo. La sua dedizione infatti era per qualcosa che non si lascia afferrare all’interno della logica individualista. E questo, come ora vorrei spiegare, è esattamente il punto del passaggio dal primo al secondo film.
Dal punto di vista delle coordinate simboliche, la trilogia di Sibilia si apre sull’istituzione universitaria che, per le sue logiche di potere e per la crisi economica in cui versa, sbatte la porta in faccia a Pietro e ai suoi amici, cioè a persone su cui aveva investito e che avevano risposto all’investimento con la vocazione, il talento, la qualità e anche con dei risultati concreti. Nel primo film, i nostri ricercatori tentano di elaborare il lutto per questo colpo subito, dedicandosi a un progetto forgiato dentro la logica individualistica. Bartolomeo, l’economista del gruppo, lo dice esplicitamente: io sono vicino al primo liberalismo austriaco, von Hayek e von Mises, mi va dunque benissimo di “metterci in proprio”. L’idea di Pietro è insomma quella di trovare una compensazione per il rifiuto patito, cercandola nei miraggi proposti da quella stessa mentalità che ha prodotto quel rifiuto, la mentalità in cui ciascuno guarda a sé o alla ristretta cerchia dei suoi (come fa il suo professore) e lascia cadere l’idea che ci sia qualcosa di comune e più alto, tra cui anche degli ideali che non sono interessi o preferenze individuali e monetizzabili. Dice ad esempio Pietro: «Noi sappiamo solo studiare. Non ce lo fanno fare? E allora io ho studiato un modo per riprenderci quello che ci meritiamo». E poco prima Alberto: «Ti risparmio tutti i discorsi che potrebbero sorgere sul piano etico perché io, il piano etico, l’ho abbandonato quando mi hanno preso per il culo all’università».
Per ricostruire il discorso del primo film dobbiamo prestare attenzione agli scambi e dunque alle presunte equivalenze simboliche. L’università rifiuta qualcosa, Pietro e gli altri progettano di riprendersi l’equivalente mettendosi in proprio. Guardando a quel che di fatto prendono possiamo capire come elaborano quel che è stato loro rifiutato. Ebbene, Alberto si compra una macchina sportiva, Mattia e Giorgio affittano un’enorme suite in un hotel lussuoso, tutti si circondano di escort e comprano vestiti sgargianti. È dunque questo quello che veramente volevano quando si dedicavano alle loro ricerche, la vita delle starlette della televisione o quella dei figli fannulloni di qualche imprenditore?
Come sappiamo, alla fine arriva la polizia. Il film, però, non ci sta dicendo che per ottenere quelle cose non si deve violare la legge, infatti, i personaggi che ci sono mostrati in possesso di quel tipo di vita, ad esempio il sottosegretario che incontrano alla festa in smoking e che consiglia il conto offshore in Bolivia, non sono certo esempi di onesti lavoratori. Piuttosto, la morale del primo film sembra la seguente: questo stile di vita, che voi stessi riconoscete come l’unico desiderabile, è desiderato da tutti, ma non è per tutti, ad esempio, non è per voi. È Masterclass che si assume il compito di complicare l’angusto quadro simbolico su cui si chiudeva il primo episodio.
Nel sequel, è introdotto il personaggio dell’ispettrice capo Paola Coletti. È sua l’idea di combattere la diffusione delle smart drugs, le droghe non ancora messe fuori legge dal Ministero della Salute, attraverso un accordo ufficioso tra la polizia e la banda di Pietro. In cambio di una ripulitura della fedina penale, Pietro e gli altri devono individuare i produttori di almeno trenta delle nuove droghe in circolazione. Coletti, per fare carriera o in ossequio alla lotta contro la criminalità e il traffico di stupefacenti (all’inizio la sua motivazione non è chiara) offre dunque agli ex ricercatori una nuova ricerca. E ancora una volta non si tratta di una ricerca fine a se stessa o chiusa nei limiti dei loro interessi individuali: ha a che fare con il bene comune. La banda ci si dedica anima e corpo e in poco tempo ottiene il risultato atteso. Ancor più che nel primo film, è qui evidente l’utilità di tutte le varie competenze. Ciascuno riesce a fare la sua parte proprio in virtù del sapere che ha coltivato negli anni. L’archeologo, ad esempio, non è lì solo per il furgone che mette a disposizione, come nel primo episodio, ma porta la sua eccezionale conoscenza delle antiche strade romane.
“Non c’è davvero conciliazione possibile tra le istituzioni pubbliche attuali e quegli ideali, comuni e sociali, a cui sono dediti i ricercatori”
Ma la Coletti e il suo capo si rivelano ben presto diversi da quel che davano a vedere. Dapprima cambiano gli accordi in corsa: non basta che abbiano individuato in pochi mesi trenta nuove droghe, Pietro e i suoi amici devono anche smascherare i produttori della smart drugs più diffusa, la Sopox. Dobbiamo notare che qui si colloca una scena simbolicamente decisiva: pur accorgendosi dei sofismi e della retorica usati dalla Coletti per presentare come un’inezia la modifica del patto iniziale, alla fine i ricercatori accettano dichiarando che, nei mesi precedenti, si sono finalmente sentiti “socialmente utili”. La parola è davvero ben scelta. Di solito si dice che il sapere non deve essere asservito al calcolo dell’utilità, ma in realtà, il problema è che tale calcolo non sia compiuto attraverso un concetto troppo povero e ristretto di quel che è socialmente utile. Quando invece è usato un concetto adeguato di utilità, allora quella valutazione è importantissima perché equivale a un riconoscimento e a un’attestazione di qualcosa che i ricercatori sanno bene e cioè che il loro sapere non è solo un affare loro, ma, come abbiamo già detto, un bene comune. In quell’accordo ufficioso con la polizia e dunque con le istituzioni pubbliche, ciascuno dei membri della nostra banda vede riconosciuto il fatto che, nel coltivare il suo sapere, non ha agito semplicemente pro domo sua, per il suo vantaggio personale, ma per ciò che è comune e ha valore per tutti. Poi, certamente, anche l’azione in se stessa, con le scariche di adrenalina che porta con sé, è qualcosa che avrà fatto loro piacere, ma nel momento della decisione collettiva, non è a questo che fanno riferimento, bensì all’utilità sociale e al ritrovato senso esistenziale.
Dunque, sul piatto non ci sono solo le macchine sportive, le feste con le escort e i soldi. C’è dell’altro. Il sapere non è in funzione di quelle cose lì, anche se può esservi asservito. Il sapere fa segno verso un altro ordine di beni e un altro principio di condivisione degli stessi. Questo emerge in Masterclass. Ma il discorso non si ferma qui. Dopo aver modificato il patto, infatti, le istituzioni tradiscono nuovamente la banda: per non rischiare di essere accusate di aver stretto accordi ufficiosi con dei pregiudicati, insabbiano questi accordi e addirittura incastrano gli ex ricercatori accusandoli di essere loro i produttori di Sopox.
Masterclass ci dice insomma che non c’è davvero conciliazione possibile tra le istituzioni pubbliche attuali e quegli ideali, comuni e sociali, a cui sono dediti i ricercatori. La polizia non fa che ripetere lo sfruttamento e il tradimento già perpetrarti dall’università. Il primo film parlava con tatto e leggerezza di un dramma reale, ma poiché si limitava all’aspetto privato e personale, finiva col produrre un discorso incerto. Poiché Pietro aveva potuto credere che quel che gli è stato tolto era la possibilità di vivere da grande consumatore, allora possiamo al massimo provare simpatia per la sua vicenda singolare, ma niente di più. È solo uno dei tanti che non riesce ad avere la vita spettacolare che tutti sono supposti desiderare. Con Masterclass, le cose cambiano radicalmente: è mostrato che ci sono altri desideri, annodati ad altri ideali. E non è venduta nessuna facile conciliazione tra questi ideali e le istituzioni che oggi ordinano la vita sociale. Appare chiaro che c’è un conflitto simbolico aperto e non un solo modello di vita con le persone che lo realizzano a vari gradi.
Smetto quando voglio – Masterclass è un film anarchico, che dice che le istituzioni, perlomeno oggi, non smetteranno di tradire e fregare quelli che non ragionano solo nei limiti del tornaconto individuale. Sono curioso di vedere il terzo film, Ad honorem, perché mi chiedo se Sibilia avrà il coraggio di non ammorbidire la contraddizione che ha saputo svelare. Se non lo farà e se addirittura saprà indicare nuove vie per la condivisione di quegli ideali più alti e dei desideri che li investono, dovremo darci appuntamento per capire come incamminarci per quelle vie.
Caro Fanciullacci, ho apprezzato il suo scritto.
Il primo film era piaciuto molto anche a me e avevo trovato l’idea, oltre che originale, anche molto italiano-autentica.Leggendo l’articolo, però, sorgono due domande :
1. non crede che, oltre alla situazione critica della ricerca italiana (o europea), la quale, non solo non trasmette i mezzi, ma neppure la passione, ci sia uno stallo più generale della ricerca come “bene comune”? Intendo dire che non si capisce più di che bene comune si parla. Non voglio alimentare la diatriba tra l’utilità sociale e la ricerca astratta, dico solo che il sapere come ideale umano condiviso (almeno nelle istituzioni) non mi sembra un bene comune chiaro, soprattutto oggi.
2. nel primo film e, da come lo racconta, ancor più nel secondo, si potrebbe anche leggere che i nostri ricercatori trovano una maggiore utilità reale al loro sapere in azioni concrete e utili (a più livelli, secondo i film) piuttosto che nella produzione di un sapere accademico. Dunque, perché continuare ad approfondire questo “bene comune”, quando non serve direttamente il comune?
Cordialmente
Caro Costelli,
la ringrazio per le sue domande che, a mio parere, invitano a considerare anche un altro lato della questione che ho cercato di rendere leggibile nei film di Sibilia. Provo a riformulare il punto a mio modo cosicché lei possa anche valutare se non l’ho fraintesa.
Considerati insieme, i due film pongono una questione politica che descriverei così: che posto merita nel legame sociale il sapere, inteso non tanto come archivio di informazioni stoccate, ma come ideale che anima una ricerca concreta e dinamica? Ebbene, di fronte a questo problema lei chiede di quale sapere stiamo parlando. Più esattamente, invita a non dare per scontata la forma del sapere e della ricerca a cui si tratta di riconoscere un posto tra i beni comuni. Forse che qualunque sapere e qualunque modalità di ricerca è già di per sé un bene comune, ossia qualcosa che ha una potenza benefica sulla collettività, qualcosa che arricchisce la vita comune e magari anche la vita di ciascuno e ciascuna?
Si tratta di una domanda fondamentale e prima di rifletterci su ancora un poco, vorrei, per continuare il gioco, far vedere che anche questa trova un possibile aggancio nei due film. Nel primo episodio, dopo aver pianto da solo e dopo aver mentito alla sua compagna cui non ha il coraggio di dire che non gli è stato rinnovato il contratto, Pietro va a trovare i due amici latinisti alla pompa di benzina dove lavorano: i due vogliono consolarlo e, all’inizio, dicono anche delle cose ragionevoli, ma poi, per un nonnulla, finiscono per litigare a colpi di citazioni latine. L’effetto è esilarante, ma al di là di questo, possiamo leggere in questa scena una sorta di dubbio sull’effettiva capacità del sapere di quei due di restare agganciato alla realtà e avere efficacia in essa. Un conto è dare per scontato che non serva a niente, un altro è però dare per scontato che abbia già una forma che lo rende un bene comune.
Su questo problema vorrei fare tre osservazioni. La prima, che può suonare deludente e, giustappunto, “accademica”, è in realtà molto importante: per non perdere tempo, dobbiamo prenderci il tempo. Vuol dire che per immaginare delle risposte non possiamo dare per scontato di avere a disposizione una buona formulazione della domanda e dei termini che in essa ricorrono. Ad esempio, non è affatto ovvio che disponiamo di una buona concezione di che cos’è un bene comune, di che cosa significa chiedersi che posto meriti un certo bene nel nostro legame sociale e di che cosa sia, in generale, il legame sociale. Pensiamo per un momento all’arte: la domanda che chiede se l’arte sia poi davvero importante ha qualcosa di paradossale visto che l’arte è proprio uno dei luoghi in cui viene distillata l’idea di ciò che è importante e più elevato. Allo stesso modo, va bene interrogarsi sull’utilità sociale del sapere, ma solo a patto di usare un buon concetto di utilità sociale, salvo che tale concetto può essere individuato solo mettendo all’opera una qualche ricerca e dunque un qualche rapporto con il sapere. Insomma, non ci troviamo in un porto sicuro a riparare lo scafo della nostra nave: dobbiamo farlo mentre siamo in mare aperto. Quello che a me pare certo è che in tanti momenti della vita, singolare e collettiva, non ci raccapezziamo e tanto più riflettiamo seriamente sui problemi, tanto più vediamo quanto profonde sono le loro radici. Ora, in una simile situazione mi sembra indispensabile procurarci una qualche forma di sapere, piuttosto che far finta di niente e continuare ad appoggiarsi ai vecchi schemi sperando che tengano ancora un po’ alla bell’e meglio. In questo senso, dobbiamo interrogarci sul ruolo del sapere a livello delle forme secondo cui si ordina la vita comune. Chiederci quale ruolo il sapere meriti significa anche chiedersi qual è il ruolo che gli viene attribuito dalla forma di legame sociale in cui ci riconosciamo, in cui non ritroviamo solo noi stessi, ma anche un’immagine più alta di noi stessi. È vero comunque che non va data per scontata la forma del sapere che dobbiamo procurarci e che è incluso in questa immagine più alta di noi stessi.
La seconda considerazione riguarda le istituzioni del sapere, cioè i contesti regolati che dovrebbero (infatti lo pretendono e sono socialmente supposti farlo) rendere possibile la ricerca. Lei si chiede se la forma che il sapere e la ricerca assumono in queste istituzioni li renda davvero un bene comune, cioè sia una forma che li renda davvero capaci di sprigionare la loro positività. Ha ragione a chiederselo perché troppo spesso ci si racconta che tutto il problema stia in ciò che dall’esterno arriverebbe a impedire al sapere di diffondere gli effetti benefici che da sé già avrebbe. Se non fosse per la crisi economica che riduce i fondi da investire nella ricerca! Se non fosse per qualche singolo individuo che cerca solo il potere, invece di favorire la ricerca! Se non fosse per la logica del potere e della mera riproduzione burocratica, che, come un parassita, deforma gli autentici principi e lo spirito di istituzioni come l’università! Nessuna di queste tre lamentele, progressivamente più radicali e dotate tutte di una qualche verità, ha il coraggio di porre la sua questione, caro Costelli. La questione che chiede se non ci sia qualcosa da rivedere nella forma stessa del sapere qual è coltivato e ricercato in quelle istituzioni. Curiosamente, questa domanda non se la pongono in molti: quasi tutti credono di avere già la risposta! All’università, perlopiù, si crede che la risposta sia ovviamente negativa: le forme del sapere hanno una storia che le legittima ed è solo la società che è così imbarbarita da non saper più riconoscere il loro carattere benefico. Fuori dell’università, perlopiù, si crede che la risposta sia ovviamente positiva: il sapere accademico non serve a niente, è chiuso su di sé, o nel senso dello specialismo (nelle scienze sperimentali) o nel senso del narcisismo (nelle scienze umane). E quelli che invece affrontano la questione? Sono al centro della terza considerazione.
Riconosciuta la difficoltà che le forme attuali del sapere hanno a sprigionare la loro bontà o “utilità” – e non dimentichiamo che non abbiamo una misura sicura di quest’ultima, la dobbiamo ripensare mentre ripensiamo a ciò che dovremmo misurare con essa (riparare la barca in mare…) – ci si para davanti un primo grande bivio. Da una parte abbiamo chi pensa che liberare la positività del sapere richieda di liberarlo dalle istituzioni in generale: la forma di sapere che nutre e vivifica è solo l’esperienza vissuta, che ciascuno deve cercare per sé, eventualmente offrendosi come esempio agli altri. Dall’altra parte, invece, abbiamo chi pensa che il vissuto debba essere articolato e dunque debba passare per la parola e dunque per gli scambi e dunque per dei contesti più o meno ordinati in cui la competenza simbolica è trasmessa e coltivata. Per costoro, la ricerca del sapere abbisogna di qualche forma di istituzione. Io sto decisamente da questa seconda parte: può esserci ricerca biologica senza laboratori? Può esserci ricerca umanistica senza biblioteche? Può esserci ricerca in generale senza pratiche di scambio? Ora, chi sta da questa parte deve ammettere una conseguenza importante: non è che siamo nel vuoto e dobbiamo chiederci se convenga o meno creare delle istituzioni, piuttosto, siamo già dentro un contesto istituzionale e si tratta di capire come trasformarlo. Ma questo contesto da trasformare non è solo negativo, infatti, ci ha perlomeno messo in condizione di ragionare sul problema su cui stiamo ragionando. Avrebbe potuto metterci in condizioni migliori? Ah, è probabile, ma non possiamo far altro che partire da dove ci troviamo. Così, non è esatto dire che l’università non trasmette né i mezzi, né la passione. Senza l’università, né Pietro, né i suoi amici avrebbero l’alto profilo scientifico che hanno e se l’università avesse solo soffocato le loro passioni, se ne sarebbero andati prima e senza rammarico. Nel primo film, ad un certo punto si vede una foto con Pietro e Alberto, piuttosto giovani, vicino al laboratorio: sono felici non perché sono ancora illusi, ma perché l’università non è solo una realtà marcia mascherata da un’illusione evanescente. È fatta anche da momenti in cui si è messi in contatto con l’ideale del sapere. Solo che poi arriva il tradimento. E, come giustamente sottolinea lei, questo tradimento non è solo delle persone, ma anche di quello stesso ideale che viene incanalato in forme che sono sottratte alla prova della realtà.
Ripensare le forme del sapere e della ricerca significa anche ripensare i contesti regolati volti a promuovere e rendere possibile tale ricerca. Se questa è la tesi che ho appena avanzato, vorrei aggiungere che lascia ampio margine di manovra a proposito della forma di questi contesti. Insomma, può essere che per favorire una ricerca del sapere davvero benefica ci voglia qualcosa di ben più radicale che una riforma interna dell’università, cioè che si debba mettere in questione l’assunto secondo cui, comunque, la ricerca del sapere è un affare universitario. A questo punto dovremmo fare un inventario dei diversi esperimenti di nuovi rapporti al sapere (e dunque di nuove forme del sapere) che sono tentati nel nostro tempo o che sono stati tentati nel passato, ma che potrebbero essere ripresi. E questo inventario dovrebbe anche essere differenziato a seconda che in questione ci siano saperi come la fisica o la biologia, oppure le scienze umane. Personalmente, ho qualche competenza solo in rapporto a queste ultime.
Grosso modo, abbiamo, da un lato, i tentativi praticati all’interno dell’università di trasformare le forme ricevute del sapere e della ricerca umanistici. E qui le direttrici principali mi sembrano due: l’una cerca forme che siano il più facilmente possibile valutabili attraverso procedure supposte neutrali (i vari indici di impatto del risultato di una ricerca sulla comunità degli specialisti ecc.) e ha conseguenze enormi. Faccio un solo esempio, nella nostra cultura, le pietre miliari, in termini di sapere, sono dei libri e spesso anche voluminosi (dalla Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, ai Principia di Newton, da Il capitale di Marx a Economia e società di Weber ecc.), mentre quella direttrice di sperimentazione promuove articoli molto brevi che inevitabilmente presuppongono fortemente lo stato della discussione specialistica e che dunque sono inaccessibili ai non addetti ai lavori. Quanto all’altra direttrice è quella che cerca di favorire per il sapere una forma che lo metta in dialogo con le esigenze delle imprese, il che di solito significa: che lo asservisca alle domande delle imprese e lo renda da loro immediatamente utilizzabile, senza che tali domande o i criteri di utilità siano assolutamente messi in questione. Date queste due direttrici politiche, che all’università si riescano ancora a produrre risultati che hanno un alto profilo di sapere (ad esempio, pregevolissime edizioni dei classici della letteratura o del pensiero), a me pare talvolta un vero miracolo, qualcosa che si avvale dei resti della vecchia università, ma che proprio per questo non osa metterli in questione. Se poi usciamo dall’università, ci troviamo davanti uno spettacolo variegato, ma al centro del quale ci sono i diversi tentativi di inventare forme di divulgazione del sapere (gli editori che chiedono libri maneggevoli e senza note a piè di pagina, i vari festival della letteratura o della filosofia o della mente ecc. ecc.). Personalmente, io contesto l’idea stessa di divulgazione, di spargere al volgo. No, non mi piace ragionare in termini di volgo e di élite. Non si tratta di rendere fruibili alla “massa” gli avanzi del pasto consumato dalle élite intellettuali. Credo si debba lanciare una sfida ben più radicale. Bisogna contestare la falsa alternativa tra un sapere che sia governato dalle richieste forgiate dalle imprese in luoghi impermeabili a quello stesso sapere e un sapere che, dopo essere stato elaborato in una torre d’avorio, viene semplificato e donato in pillole alla massa. In un caso, non è un bene comune, ma solo un bene per le imprese e bisogna sperare che siano loro a servire il bene comune… Nell’altro caso, è dato per certo che sia un bene comune anche se è elaborato in luoghi ben separati dalla vita comune e ci si chiede solo come renderlo consumabile da tutti. Ci sono alternative?
Chiedere se ci siano alternative vuol dire chiedere se ci sono, non già individui geniali, bensì contesti regolati e pratiche ordinate (nel senso che si danno un ordine) in cui è tentata una nuova conciliazione tra qualcosa che meriti ancora il nome di “ricerca del sapere” e di “investimento sull’ideale del sapere” e i nodi che stringono la nostra vita collettiva e che potrebbero essere allentati da un sapere che fosse davvero un bene comune? Credo di sì. Dobbiamo imparare a riconoscerli ed eventualmente a coltivarli e farli crescere ulteriormente. Visto che siamo ospiti del sito di Orthotes, dirò che proprio nel catalogo di questo editore ci sono alcuni libri, non tutti però, che nascono da contesti come quelli appena evocati.