Simone Weil

Simone Weil (1909-1943), filosofa e scrittrice francese, fu operaia, lavorò in fabbrica e partecipò alle lotte sindacali condividendo in tutto la condizione del lavoro mortificato dalla catena di montaggio. Partecipò alla guerra civile spagnola schierandosi dalla parte dei repubblicani (guidati dal Fronte Popolare di ispirazione marxista). A Londra si unì all’organizzazione (France libre) dei resistenti in esilio, con i quali condivise i disagi e le lotte, per combattere gli invasori tedeschi. Mistica cristiana (senza essere convertita alla fede), è autrice di una filosofia spiritualista fondata sulla dialettica della rinuncia a credenze e ideologie che derubano l’uomo di se stesso e sviliscono il rispetto per la persona.

Il periodo presente è di quelli in cui tutto ciò che sembra normalmente costituire una ragione di vivere svanisce, e nei quali, se non si vuole affogare nel caos o nell’incoscienza, bisogna rimettere tutto in questione. Che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti rovini un po’ dappertutto la speranza che le persone oneste avevano posto nella democrazia e nel pacifismo, non è che una parte del male di cui soffriamo; esso è ben più profondo e ben più esteso. Tanto che ci si può domandare se esista ancora un solo settore della vita pubblica o privata in cui le sorgenti stesse dell’attività e della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali viviamo. Il lavoro non si compie più con la coscienza orgogliosa della propria utilità, ma col sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio elargito da un passeggero favore della sorte, un privilegio da cui, per il fatto stesso che noi ne godiamo, ne restano esclusi molti altri esseri umani: insomma, un posto. I capi stessi delle imprese hanno perduto quell’ingenua fede in un progresso economico illimitato che li rendeva illusi di avere una missione da compiere. Il progresso tecnico sembra aver fallito dal momento che, invece del benessere, non ha portato altro alle masse se non la miseria fisica e morale nelle quali le vediamo dibattersi; del resto le innovazioni tecniche non sono più ammesse in nessuna parte, o sono poco considerate, eccetto che nelle industrie di guerra. Quanto al progresso scientifico non si riesce a comprendere a cosa possa servire l’accumularsi delle altre conoscenze su un ammasso già troppo vasto perché possa essere abbracciato dal pensiero stesso degli specialisti; e infatti l’esperienza dimostra che i nostri avi si sono ingannati credendo nella diffusione dei lumi, giacché non si può divulgare tra le masse che una miserabile caricatura della cultura scientifica moderna, caricatura che, lungi dall’aiutarli a formarsi un giudizio, le abitua alla credulità. L’arte stessa subisce il contraccolpo della degenerazione generale, che la priva in parte del suo pubblico, e perciò stesso reca danno all’ispirazione. Infine, la vita familiare non è più che ansietà dopo che la società si è chiusa davanti ai giovani. Persino la generazione per la quale la conquista febbrile dell’avvenire è tutto, vegeta, nel mondo intero, nella consapevolezza di non avere più alcun avvenire, che non c’è più posto per lei nel nostro mondo. E questo male, se è più acuto per i giovani è ormai comune a tutta l’umanità d’oggi. Noi viviamo in un’epoca privata dell’avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia.

C’è tuttavia, dopo il 1789, una parola magica che contiene in sé tutti i futuri immaginabili e che non è mai così ricca di speranza come quando si presenta nelle situazioni disperate: è la parola rivoluzione. E infatti la si pronuncia spesso da qualche tempo in qua. Noi dovremmo essere anzi, a quanto sembra, in pieno periodo rivoluzionario; ma, di fatto, tutto scorre come se il movimento rivoluzionario cadesse in rovina col regime stesso che è sua aspirazione distruggere. Da più di un secolo, ogni generazione di rivoluzionari ha sperato di volta in volta in una prossima rivoluzione; oggi, anche questa speranza ha perduto tutto ciò che poteva esserle di supporto. Né nel regime scaturito dalla rivoluzione d’Ottobre, né nelle due Internazionali, né nei partiti socialisti o comunisti indipendenti, né nei sindacati, né nelle organizzazioni anarchiche, né nei piccoli gruppi di giovani che da qualche tempo sono sorti così numerosi, si può più trovare qualcosa di vigoroso, di sano o di puro; da lungo tempo la classe operaia non ha dato alcun segno di quella spontaneità sulla quale contava Rosa Luxembourg, e che d’altra parte non si è mai manifestata che per essere subito annegata nel sangue; le classi medie non sono sedotte dalla rivoluzione che quando essa è invocata, con fini demagogici, da qualche aspirante dittatore. Si ripete spesso che la situazione è oggettivamente rivoluzionaria, e che solo il «fattore soggettivo» manca; come se la carenza totale della forza stessa che potrebbe da sola trasformare il regime non fosse un carattere oggettivo della situazione attuale, di cui bisogna cercare le radici nella struttura della nostra società! È per questo che il primo dovere che ci impone il periodo presente è di avere sufficiente coraggio intellettuale per domandarci se il termine di rivoluzione è qualcosa di diverso da una parola, se ha un contenuto preciso, o se invece non è semplicemente che una delle numeroso menzogne suscitate dal regime capitalista nel suo imporsi e che la crisi attuale ci mette in grado di dissipare. Sembra una domanda empia, se si pensa a tutti quegli esseri nobili e puri che hanno sacrificato tutto, compreso la vita, a questa parola. Ma solo dei preti possono pretendere di misurare il valore di un’idea dalla quantità di sangue che ha fatto scorrere. Chi può sapere se i rivoluzionari non hanno versato il loro sangue altrettanto vanamente di quei greci e di quei troiani cantati dal poeta, che, ingannati da una falsa apparenza, si batterono dieci anni attorno all’ombra di Elena?

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