Søren Kierkegaard, Scritti sulla comunicazione

I seguenti scritti del terribile contestatore cristiano, che fu certamente Søren Kierkegaard, introducono al senso ed allo sviluppo della imponente produzione della sua attività letteraria. Questi scritti della (o sulla) comunicazione hanno un proprio sviluppo che riflette e vuole trascrivere il processo d’interiorizzazione che l’autore va compiendo – quasi suo malgrado e sotto la spinta di forze profonde, strane e arcane – e di cui avverte l’aura e la misteriosa confluenza fra opposizioni, meschinità, sofferenze d’ogni genere. Il lettore deve perciò avanzare con i passi cauti dello spirito se vuole cogliere il ritmo segreto che in essi si svela. Lo stile di questi scritti è estremamente riflesso, spesso spezzato e disadorno, fatto più di sussulti e di ritorni che non di risultati: ma anche fremente di balenamenti improvvisi, di commozioni e confessioni quasi di un morente, come egli in effetti si considerava. Il contenuto è ancora oggi estremamente provocatorio e inattuale, più di quanto Nietzsche non dicesse delle sue Considerazioni: nulla infatti sembra più ostico e repellente all’uomo contemporaneo, travolto dalla società consumistica e permissiva, di un ritorno al Cristianesimo del Nuovo Testamento.

Nella mia attività letteraria si è giunti al punto dove si può fare ciò ch’io sento e perciò considero mio dovere: spiegare nel modo più diretto e aperto e preciso possibile quel ch’essa è e ciò che io la giudico come autore. Per sfa­vorevole che sia in un altro senso, il momento è venuto, in parte — come ho detto — perché si è giunti a questo punto, in parte perché ora io mi trovo con la mia prima opera, con la seconda edizione di Aut-Aut, che non ho voluto pubblicare prima.

C’è il tempo di tacere e il tempo di parlare (Eccl. 3,7). Fin quando io ho considerato come un dovere religioso di osservare il più stretto silenzio, ho cercato di osservarlo in
tutti i modi. Non ho neppure cercato di contrastare la mia aspirazione in senso finito, dandomi alla pratica del silen­zio, dell’astuzia e della doppiezza. Quanto ho fatto a que­sto proposito è stato e resta frainteso, viene spiegato co­me superbia e orgoglio e Dio sa che cosa. Poiché, per con­vinzione religiosa, considero mio dovere il silenzio, non ho fatto nulla per evitare questo fraintendimento. Ed ho considerato il silenzio mio dovere perché l’attività lettera­ria non era ancor giunta alla sua totalità, così la compren­sione doveva risolversi in un fraintendimento.

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21.06.2016 // Doppiozero

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