Puccini e Pasolini

A una prima occhiata sembra difficile trovare due artisti più diversi di Giacomo Puccini e Pier Paolo Pasolini. Mi è capitato di riflettervi rileggendo Una vita violenta negli stessi giorni in cui riascoltavo la Tosca. Le due fruizioni non sono state conseguenza della ricerca di possibili somiglianze, finché, leggendo il terzo capitolo di Una vita violenta e ascoltando il terzo atto della Tosca, ho notato un’affinità importante: entrambi gli artisti hanno descritto la nascita del giorno a Roma, scandita da molte diverse campane. Trovata un’affinità, ne spuntano altre. Ad esempio Pasolini e Puccini si somigliano anche nel modo in cui vengono apprezzati; Pasolini rimane legato alla sua violenza espressiva – dico violenza a livello soprattutto strutturale e stilistico – per cui è difficile, se non addirittura imbarazzante per chi lo ama, considerarlo uno scrittore comunque “normale”, come possono esserlo Gadda, Landolfi, Buzzati, Calvino. Pasolini, come ha detto Eduardo De Filippo, è “una creatura angelica”, un artista sublime, cristologico, soterico, però unico, non classificabile. Alla stessa maniera, Puccini è rappresentato ovunque, ma pochi dei suoi entusiasti ammiratori riescono a dichiarare in modo completo il loro amore; le sue opere sono troppo strane nel mettere insieme una musica in linea con le avanguardie europee con arie orecchiabili come quelle del Verdi maturo. L’unico musicologo a prendere una posizione precisa è stato il geniale reazionario – in ambito musicale, s’intende – Roland de Candé, quando afferma che le opere di Puccini “sono fra i capolavori del ventesimo secolo”, definizione completa, profonda, semplice e bellissima.

“… le sue opere sono troppo strane nel mettere insieme una musica in linea con le avanguardie europee…”

L’inizio del terzo atto della Tosca è ambientato sulla piattaforma di Castel Sant’Angelo. La didascalia dice – anzi prescrive se non più direttamente impone – i seguenti oggetti e spazi: una casamatta, una lampada su una tavola, fogli e penne, una panca, una sedia e via dicendo. Quattro corni all’unisono suonano senza alcun sostegno una fanfara trionfale, fortissimo. Stravagante inizio, soprattutto per chi conosce l’opera. La fanfara dei corni tornerà infatti, cantata dalle voci dei due amanti e di nuovo senza alcun sostegno, verso la conclusione dell’atto e dell’opera. La vicenda? Il 14 giugno 1800; Mario è un simpatizzante rivoluzionario, e la famosa cantante Tosca la sua amante. Interviene il barone Scarpia, capo della polizia, che vuole possedere Tosca e far fucilare Mario. Ma Tosca, prima di pugnalare a morte Scarpia, esige un lasciapassare firmato dal bieco libidinoso aguzzino. Lei è quindi convinta che Mario non sarà fucilato sul serio, ma per finta, con fucili caricate a salve. Scarpia però, più astuto, ha dato al suo luogotenente l’ordine di caricarli per davvero, i fucili. I due protagonisti non lo sanno, e si lanciano in un duetto culminante nelle note cantate sulle parole: “Trionfal, / di nova speme / l’anima freme /di celestial / crescente ardor. / Ed in armonico vol / già l’anima va / all’estasi d’amor”; note identiche, nei minimi particolari, a quelle dei corni. Puccini apre l’atto con questo tema, che risulta ingannevolissimo per i due innamorati e per lo spettatore. “Bene,” si dirà questi “come spesso nei preludi sinfonici, anche qui vi è un’anticipazione degli eventi salienti del dramma.” Quando il tema dei corni torna intonato dalle voci, lo spettatore dirà: “Dunque ho capito bene: Mario e Tosca si salveranno!”, restando poi traumatizzato, come Tosca, al momento della vera fucilazione: Puccini, grande musicista, grande uomo di teatro.

È notte, il cielo è scintillante di stelle: la fanfara ha quindi svettato nel buio, caricandosi di ulteriore ambiguità. Un passo orchestrale sereno, nel registro acuto, persino punzecchiante – le “punte” delle oleografiche stelle? – introduce il canto di un pastore. Fra parentesi Puccini scrive “ragazzo”, prescrivendo la voce bianca; peccato non abbia scritto “ragazzo di vita”. Però, come in Pasolini, il pastore canta in romanesco: “(…) pe’ quante foje ne smoveno li venti. (…)” e via dicendo. Ma Puccini traduce soprattutto con la musica il ricercato lessico popolare, per cui il pastore canta, nella tonalità di mi maggiore, un tema basato sulla scala di mi maggiore con il la innalzato. Per chi non familiarizzi col linguaggio dell’armonia, l’effetto musicale è un po’ stravagante, “sbagliato” ma anche antico, medievaleggiante. Fabrizio De André nella canzone in napoletano La nova gelosia, da lui stesso definita “popolare”, sostituisce alcune volte il do diesis al do naturale, ottenendo un simile effetto di dissonante svista; questo particolare si nota alla prima ripetizione del testo sulle parole “tutta lucenTE DE CENtrella d’oro”: il passo è però molto breve e può quindi passare inosservato.

Le oscillazioni dei campanacci dell’armento si allontanano sparendo insieme al pastore, che preannuncia la morte pur nell’ingenua semplicità della chiusa del suo canto (o non sarà già forse un sottoproletario sul punto di acquisire una coscienza critica marxista? non credo…). Sia come sia il pastore canta: “lampena d’oro [lume dorato] me fai morir”; Pasolini avrebbe scritto: “a ceca d’oro [di nuovo “lume dorato”] nun me fa’ aranfa’ dàa commare secca”.

Inizia la lunga descrizione musicale dell’ultima parte della notte che preannunzia l’alba. Puccini scrive un lungo brano impressionista con spunti alla Debussy. È sereno, strumentato per archi, con brevi interventi del flauto, degli altri legni e dell’arpa. Le protagoniste della pagina sono però le campane, che, unite a quelle del primo atto, creerebbero senz’altro soverchi impegno e acribia per il percussionista, anzi, per l’addetto dell’arsenale campanario, in un’esecuzione con strumenti d’epoca.

Il brano richiede ben undici campane diverse, collocate a diverse distanze dall’orchestra; il carattere del brano, in mi maggiore, è perciò intimo, sereno, dolce. Tutto a un tratto la tonalità cambia, passando a mi minore: un preannunzio di morte. Gli archi, nel registro medio, suonano il tema più celebre dell’opera ma come venisse da un abisso nero e profondo, scandito da un’enorme campana subbassa: un effetto mortuario, lugubre e tremendo. Qui il campanone è una voce implacabile, terribile, di un gigantesco mostro ctonio. “Oh bella!” si dirà l’ascoltatore quando riudirà lo stesso tema cantato dal tenore: “O dolci baci o languidi carezze”. L’ultimo pensiero di Mario è lo stesso che invade ognora la mente dei maschi preadolescenti: spogliare nuda una bella ragazza. Nel film Animal House di John Landis un ragazzino sfoglia in camera sua un numero di Playboy, quando, per una serie di eventi straordinari, irrompe dalla finestra per cadergli in braccio una bellissima majorette dalle gambe nude. Il ragazzino guarda in alto estasiato e dice: “Grazie Dio!…” È questa esperienza, immaginata all’infinito e realizzatasi rarissimamente, che Mario canta: regredire all’erotismo della sua prima giovinezza. Ma allora perché il tema, uno dei più celebri del mondo – Mosco Carner dice con forza sibillina ma carismatica che questo tema è baci e carezze – viene enunciato nel buio della notte?

In Una vita violenta le campane suonano ed evocano mirabili suggestioni:

Ma ecco che, piano piano, delle campane cominciarono a suonare. Arrivavano fiacche, smorzate, come venissero da lontano, oltre i padiglioni e i giardini. […] Era un suono che Tommaso non aveva inteso mai: o forse lo aveva inteso da ragazzino, e non se ne ricordava. Pareva venisse su dal fondo della terra, o da qualche punto del cielo, di sopra le nuvole della prima mattina, dove c’è un po’ di luce che si colora appena, e pare già quella d’un giorno bello e felice. Era il suono del Mattutino. Ancora non risultava bene s’era un segno di festa, per il giorno che tornava, oppure se annunciava un lutto, una disgrazia. Forse erano tutte le due cose mischiate insieme, e mischiandosi si annullavano, e quel suono era un suono soltanto, che si ripeteva, fiacco ma continuo. Tommaso non riusciva a capire che volesse dire, perché non aveva né il modo né le parole per capirlo, non c’aveva fatto caso mai a queste cose, né qualcuno gliene aveva parlato mai, come non ci fossero nemmeno. […]
Ma, come dire, sembrava che quelle campane, quel don don don don misterioso che riannunciava la vita d’ogni giorno, dicesse invece che no, che tutto era inutile, che tutti erano vivi ma già morti, sepolti, anime sperdute. […]
Come stranito da quel suono che non la finiva più, […] Tommaso si sentì a poco a poco prendere da un sonno che l’attanagliava, irresistibile e profondo: restò lì come di pietra, addormentandosi piano piano, mentre fra di sé ancora se la prendeva contro i colpi di quelle campane, dicendogli i morti. S’assopì, e dormì per un bel po’ di tempo, di quel sonno che gli era piombato addosso, pieno di pace.

Il passo, meraviglioso e portato da me con grande sofferenza, pare scritto da un Pascoli, uno Svevo, un Cardarelli. Ripropone la stessa ambiguità dell’inizio d’atto di Puccini, è un intreccio di amore e morte: “forse erano tutte le due cose mischiate insieme.”

A proposito di questo romanzo, come di tutte le sue creazioni, la sottocultura italiana ha dato dimostrazione di sé. Ad esempio, su L’Unità di Genova del 27 luglio 1955, si legge un articolo scritto da un bizzarro zuzzurellone che sembra concepito da uno Stalin soltanto un po’ meno schifoso di quant’era in realtà. Cito da Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti, Milano 1977, a cura di Laura Betti): «[Colui che ha steso l’articolo] accusa lo scrittore di mistificazione per aver descritto le borgate romane come un mondo emarginato, stretto dalla disperazione, ignorando quanto l’azione del PCI lo abbia profondamente mutato. È la storia di questa trasformazione che avrebbe potuto fornire una più positiva finalità alla rappresentazione di Pasolini: “Come il Partito e l’organizzazione giovanile comunista hanno mutato, in questo decennio, la mente e il cuori di tante migliaia di ragazzi e di uomini; come i ragazzi di Roma, nati in luoghi dove la millenaria civiltà non ha gettato neppure la sua ombra, pur cresciuti nella fame e spinti ai margini della vita sociale, hanno conservato una grande forza morale; come essi hanno saputo resistere sani, fieri, decisi, animati da una volontà di riscatto quando tutto li spinge a cedere, a cercare nel vizio la strada più facile e immediata per uscire dalla loro inumana condizione: ecco una vera cronaca da cui può nascere opera d’arte, ecco una «storia italiana» che attende ancora il suo narratore…”»

“È questa esperienza, immaginata all’infinito e realizzatasi rarissimamente, che Mario canta: regredire all’erotismo della sua prima giovinezza…”

Tornando all’argomento del mio breve articolo, Puccini ci mostra uno scenario naturale, “vero”, che va a mischiarsi con il pastore, l’alba, la fanfara dei corni e il tema “O dolci baci” quasi emerso dal fondo dell’inconscio. Pasolini, nella considerazione fondamentale della pagina qui riportata allude a un effetto mirabile delle campane: il loro condurre il soggetto alla comprensione profonda di un evento, comprensione che facilmente ne precederà altre. Non a caso Tommasino, dopo poche ore, prenderà coscienza dell’etica e della politica. Le campane si propongono per la prima volta nella vita del ragazzo come un ente su cui indagare e pensare, da analizzare: conoscere è finalmente possibile. Ma fino a quell’alba non gliel’aveva mai detto nessuno.

Fernando Vincenzi

8 Commenti
  1. Salve, non ho ben capito il senso di Lume dorato. Pastorello paragona l’amata ad un lumino votivo di pregiata fattura? nel senso che l’amata è oggetto di venerazione come se fosse immagine sacra? poi la campana subbassa: una campana che produce un vero mi basso (E1, mi della controttava, quattro tagli sotto il pentagrammam in chiave di basso!) a tutt’oggi non è stato ancora inventato. quindi come interpretarlo? si dirà (complici i manuali di orchestrazione) a quell’epoca scrivere campana un’ottava sotto rispetto al suono desiderato era normalissimo, anzi la prassi. bene ma va escluso questo, perché TUTTE le altre 10 campane sono scritte in suoni reali! un mi subbasso per alludere a “usate un tamtam (gong coreano) intonato E2 ma che abbia una risonanza in E1, unito a contrabbasso e subbassi d’organo, tutti con lo stesso diapason, in modo che si crei una corona di suoni (armoniche) evocanti una vera campana E1”: mi pare un tanto esagerato! Wagner /Graal (Parsifal) scrive E1 ma SOLO nella sua bozza, bozza e nulla più; nella prima stampa (Schott & Soehne 1882, Wagner ancora vivente) appare E2! come se ne esce??? non vorrei dar l’impressione di voler liquidare la questione frettolosamente ma l’unica spiegazione che posso ora immaginare è la seguente:
    nei manoscritti i refusi sono incomputabili; qualcuno può essere passato nella stampa, i viri docti non ebbero coraggio di emendare la nota pucciniana. Insomma Puccini ha davanti a sé un bel E1 dell’arpa, e nel rigo **immediatamente sottostante** RI-scrive E1 dimentico di mutarlo in E2. E’ accettabile questa mia proposta come genesi dell’errore per dittografia? non vedo soluzioni: campane tubolari più basse dell’ottava grande sono impossibili da realizzare; bell plates in controttava (se esistono) fanno pena, suono indefinito; se campana a calotta H3 pesa 60 Kg una a calotta E1 peserebbe…? ehm….; campana vera da chiesa E1 – considerando il record mondiale al Cremlino – avrebbe 8 metri di diametro e 260 TONNELLATE (duecentosessanta) di peso: sarebbe il nuovo record mondiale. PS: nel 1900 in assenza di synthetizer come riproducevano il cannone (Finale I) ? grazie per la pazienza, un caro saluto.

    1. Rispondo in ritardo alla lettera campanaria del sig. Andrea. Il riferimento è all’arsenale, in effetti gremitissimo, delle campane da usarsi nella Tosca di Puccini. Di rado, come per ciò che riguarda la percussione, o ancor di più i macchinari sonori scenografici, si ha in mente la complessità e la varietà degli arnesi voluti dal compositore, oltre che al costo, immagino esorbitante, degli stessi.
      Puccini, per trovare le campane idonee al mondo sonoro della Tosca, girava città e paesi, impiegando una parte cospicua del proprio tempo. Non si deve quindi immaginare il compositore che prescrive le campane semplicemente segnandone l’altezza in partitura con due righe di matita. No: egli gira il mondo e vuole imbattersi concretamente negli oggetti che trasfigurerà nella sua poesia. Può venire in mente un precursore di John Cage, che cammina sulla spiaggia cercando gli oggetti idonei alla preparazione del pianoforte.
      In rete è reperibile un articolo non firmato presente nel giornale Il Tirreno, in cui si dice delle scelte filologiche fatte da Riccardo Chailly nell’ultima sua esecuzione della Tosca. Puccini, oltre che passeggiare per le colline alle spalle di Viareggio, raggiungeva le chiese romane: San Pietro, San Pietro in Vincoli, Santa Maria Maggiore, approdando infine alla fonderia di Filippo Tronci, da cui si fa costruire le campane. Chailly si fa spedire tre delle campane originali, mentre le altre, cilindriche e a calotta, sono presenti alla Scala. L’unico grande problema è stato riprodurre il mi ultrabasso della grande campana di San Pietro, il quale ha dovuto essere realizzato elettronicamente, unendo il suono di una campana tedesca con quello di Santa Lucia al Prato di Firenze. Dopo essere stati filtrati, i due suoni sono stati fatti scendere fino al mi grave: in ciò l’intuizione del signor Andrea è particolarmente azzeccata.
      Nell’epistolario pucciniano pubblicato orappena da Olschki, sono presenti tre lettere indirizzate a Filippo Tronci; ne risulta che, oltre alla difficoltà di costruire campane intonate, si ha anche quella di approntare cavalletti che le sorreggano. Nella prima lettera, dell’11 marzo 1899, Puccini dice: “Le due campane Rosati in sib e fa non vanno – le rifarà e speriamo bene – Ho scritto a Ricordi – e lui stesso scriverà a Lei – e le manderà le tubolari per farci fare i cavalletti –” Puccini segue specificando come dovranno essere le campane e i cavalletti a cui appenderle. Si riferisce anche al “sib e fa bassi Tam” di cui però non posso purtroppo dire nulla al signor Andrea.
      Nella lettera dell’11 ottobre 1899 a Leopoldo Mugnone, Puccini esprime il suo dispetto circa la difficoltà nella costruzione di campane che lo appaghino: “Ero a Pistoia a Firenze per le campane – le altre due sib e fa bassi le ha rifatte due volte e sono cattive – Con Tronci si ritenta di accordare le sib e fa di Rafanelli!… L’apparecchio elettrico Tronci va bene – è in fabbrica –” Come non bastassero l’intonazione esatta delle campane e la costruzione adeguata dei cavalletti, Puccini ricorre anche a un meccanismo elettrico di avanguardia, degno di George Antheil: altro che musicista tradizionale!
      Riporto anche lo stralcio di una lettera del 5 novembre 1899 di Giulio Ricordi a Puccini, che dice: “Come Le scrissi già diedi relative ordinazioni a Rafanelli e Tronci e aspetto le loro risposte. Ho fatto ordinare a Londra le tubolari [segue pentagramma] e quando arrivate si manderanno al Tronci – ma quest’affare delle campane si complica maledettamente: non parliamo di questo nuovo impiccio di dover mandare a Pistoja le tubolari, per fare i cavalletti e poi rimandarle a Milano! – e quindi rispedirle ai teatri. Credo bene, osservare che nel 1° Atto le campane [pentagramma] dovrebbero essere su di uno stesso cavalletto – e pel 3° su cavalletti diversi!..” Anche questa è cosa da decifrare.
      Devo ribadire quanto io apprezzi questo deambulare pucciniano per mettere a fuoco i minimi dettagli delle sue opere.
      Mi immagino le preoccupazioni che incontreranno gli esecutori accorti di Madama Butterfly – cosa sono le campanelle giapponesi? –; de La fanciulla del West – cos’è la “fonica” per fortuna ce lo spiega il maestro Ettore Panizza nell’appendice del Trattato di strumentazione di Berlioz edito da Ricordi –; della Turandot – xilofono basso e tamburo di ferro.
      Non posso purtroppo dare al signor Andea alcun chiarimento sull’uso dei cannoni nella musica sinfonica o operistica (fra cui la conclusione del 1° Atto della Tosca, opera in cui Puccini non si è imposto limiti). Credo che le recenti esecuzioni dell’Ouverture 1812 di Ciaikovsky, in cui si impiegano veri cannoni caricati a salve siano un tratto del malgusto della nostra modernità. Ho letto, ma chissà dove, che lo strumento a percussione preposto a simulare il cannone nel XIX secolo si chiamasse “bombardone”, come le strumento d’ottone a fiato: resterebbe testimonianza di ciò nell’indicazione dello strumentario richiesto da Sylvano Bussotti in alcune sue opere: “grancassa cannone”.
      Ringrazio vivamente il signor Andrea per la sua erudizione e per avermi consentito di scrivere una missiva che – lo si creda, non è affatto ironia ma vanto – non potrà interessare più che cinquanta persone al mondo.

  2. Grazie per la risposta, molto apprezzata e Le assicuro che la dovrò rileggere con la dovuta calma, ora mi ritrovo in un periodo atroce.
    Una postilla soltanto dopo ulteriori ricerche in gennaio: da telefonata personale all’energico ultraottantenne Tronci di Pistoia risulta che la campana bassa (la più grave di tutte) fu curiosamente rifutata da La Scala, le altre tre originali (originali = scelte da Ricordi) prestate gentilmente sono state abbastanza rovinate causa incuria del personale. Senza parole. Il proprietario UFIP mi disse inoltre che Puccini ordinò un “tamtam-campana senza calotta centrale e con bordo rovesciato” per imitare il “mi basso” di San Pietro, dopo essersi fatto rivelare da un prete romano e poi da un esperto in Vaticano la nota con molte difficoltà, non era facile individuarla senza un tuner stroboscopico. Tuttavia anche con questo strumento la nota E1 è…impossibile da ottenere!
    Senza sapere della dettagliata risposta che avrei ricevuto oggi (e ringrazio ancora di cuore!) ho contattato un esperto in software il quale è riuscito ad isolare le campane basse (provenienti da RaiHD) dal resto dell’orchestra; il risultato dell’analisi è che Chailly usò una (non ben intonata!) campana E3 suonata contemporaneamente ad un E1 del sintetizzatore elettronico.
    A questo punto, dopo essermi informato sul curatore dell’edizione (R.P.) adottata da Chailly, l’ho contattato per email; un estratto della sua risposta:
    Thanks so much for this most informative discussion of the Tosca bells. I
    > have to say, frankly, that you’ve been into much, much more detail than I
    > have about the precise nature of these instruments, and what Puccini may
    > or may not have wanted. My usual experience in this context (in the
    > performances I’ve been involved with) is that the conductor and the bell
    > percussionist(s) get together for a separate rehearsal at some point, and
    > decide together (with a view to the acoustics of the theatre and the bells
    > available) what would work best. But — in light of your discussion here —
    > I realise that I need to think more carefully about this issue, and I may
    > well return to you (if I may) when that moment comes and I complete my
    > critical edition.

    Il mistero della “vera” campana con un “vero” E1 (qualora non fosse un refuso), e senza l’elettronica, continua…

    Cannoni: ebbene sì, non credevo alle mie orecchie ma La Scala rinunciò recisamente e disinvoltamente ad essi. Avrebbe potuto fare come Kleiber per Otello: tante grancasse, tanti tamtam e tanto altro (Mauro Balestrazzi descrive con precisione il numero dell’armamentario), dato che non potè ottenere l’agognato cannone vero a salve: fu in questa occasione che l’Impareggiabile conobbe la burocrazia italiana e vi capitolò.
    Scusi per questa nota veramente affrettata, spero in tempi migliori per potermi dedicare con più calma, ma stia sicuro che la Sua risposta la leggerò con scrupolosa meticolosità come merita. Un caro saluto.

  3. Postilla2: Puccini voleva proprio IL suono preciso di QUELLE specifiche campane di Roma:
    a) campane lontane da San Pietro in Montorio (H3?? o Bb2?? – i punti ?? indicano MIA supposizione originata dalla dinamica in partitura “assai lontano, più vicino, meno lontano…” e avvalendomi di google maps, avendo di fronte la scenografia teatrale ossia Castel Sant’Angelo con dietro Er Cupolone; a posteriori – dopo aver editato la mappa Google con penna a simulare la tringolazione – scopro con notevole sorpresa che le dimaniche in partitura collimano *perfettamente* con le reali distanze delle tre chiese in questione rispetto allo spettatore che ha di fronte Castel Sant’Angelo = palcoscenico! ovviamente La Scala non arriva a tanta acribia nel restituire le distanze reali delle varie campane, esse sono putroppo tutte ammassate nel retropalco come attesta il video Rai1 backstage);
    b) più vicino sulla destra da Sant’Onofrio (D5?? non suonato alla Prima, inspiegabilmente, per questa nota bastava davvero il negozio di campane tubolari sotto casa; forse colpa del microfono Rai che tagliò tale frequenza?);
    c) ancora più vicino sulla sinistra dalla Chiesa dei Miracoli (G4??).
    In questo modo decifrerei l’espressione epistolare gentilmente offertami dall’ottimo Vincenzi (al quale temo non riuscirò mai a dimostrare la mia gratitudine, come meriterebbe) “nel III atto su cavalletti diversi”, appunto perché a differenza delle campane Te Deum (suppongo appartenenti ad un’unica chiesa, vero?), queste del III atto sono *sicuramente* a distanze assai diverse tra loro (vedasi sopra citata ubicazione delle tre chiese, escluso Er Cupolone); tali distanze differenti devono quindi essere fedelmente evocate in teatro, ecco quindi la necessità di distanziarle usando tre supporti differenti, uno per ciscuna (non così in La Scala 2019, magari non volevano rinunciare ai proventi di due palchetti laterali che così sarebbero stati riservati “ai camapanari di destra e di sinistra” anziché agli spettatori paganti?).
    Il problema E1 (se non è refuso in partitura come da me ipotizzato – e per il momento ancora ipotesi possibile sulla quale indagherà lo studioso cui facevo riferimento nel messaggio precedente) rimane apertissimo, non avendo Puccini nel 1900 un mixer audio (e neppure il microfono elettrico per registrare del 1928) e ritenendo Tronci (massimo esperto italiano in campane) pura fantascienza una campana di qualsivoglia forma e materiale ed epoca in effettivo E1.
    Bb2 e F2 (dove A4 è il famoso La del diapason) sono buone, vere tubolari rifatte da Tronci in quanto quelle fabbricate in Francia erano rotte (o comunque non andavano bene a Puccini), ma non le fece come le originali francesi da un quintale in bronzo (difficoltà negli spostamenti) bensì in ottone nichelato (video Rai1 backstage mostra che due persone le alzano agilmente). Ottima ottima la campana H3, infatti è l’unica “a calotta” fusa nella terra con tornitura manuale.
    PS: mi scuso per l’eloquio ma sono ancora assai offeso e nervoso con i Wiener per tutte le fandonie riguardanti la “nuova” Radetzky-Marsch e mi chiedo se la nuova generazione dei Wiener (orfana dello storico di riferimento, il compianto prof. Mailer) sia davvero così ignorante o se si trastulla a considerarci ebeti; giuro che mentre digito mi tremano le mani da quanto essi sono truffaldini (ulteriore riprova al Philharmonikerball 2020, purtroppo ho eliminato il file del live streaming e ciò che rimane sono i loro rimaneggiamenti in postproduzione); cadere così in basso è inevitabile quando anziché ricercare le fonti (magari quelle redatte in Frakturschrift da testimoni oculari ed auricolari straussiani!) ci si concentra a monetizzare in ogni istante. I Lettori vogliano scusare questo mio sfogo in fuori tema.

    1. Carissimo Sig. Andrea,
      sono piacevolmente meravigliato dalla sua manifestata acribia. La ricerca relativa alla triangolazione delle campane di Roma è grande critica musicale, che rompe i confini di una disciplina spesso miseranda per accedere a una notevolissima profondità di pensiero.
      La ringrazio sentitamente dei suoi complimenti e, soprattutto, della profondità delle sue idee, delle sue prospettive di ricerca.
      Carissimi saluti,
      Fernando Vincenzi

  4. Bella discussione, grazie a Ferdinando Vincenzi e al «signor Andrea». Di questi tempi, sempre più lontani dalla cultura, dove domina l’esteriorità, che si discutano questione come questa è un bene prezioso per lo spirito. Dovesse capitarmi di citare Vincenzi, come faccio? immagino che non ci sia una versione cartacea dello scritto. Grazie ancora, un saluto cordiale. Michele Girardi

  5. Egregio dott. Girardi. Il suo commento, per me del tutto inaspettato e quindi tanto più lieto, mi ha riempito di gioia. Non esiste una versione pubblicata altrove dello scritto, che ho elaborato appositamente per questo sito. Sarei lusingato di una sua citazione. Mi permetterò di scriverle in privato riguardo alla comune passione per Puccini. Ringraziandola ancora infinitamente le porgo i più affettuosi saluti.
    Fernando Vincenzi

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