Il proletariato come destinazione alla libertà

Lidea di una vocazione morale del proletariato o, se preferite, l’idea che la lotta del proletariato si identifichi nella lotta per la totale liberazione dell’uomo, è così solidamente radicata in tutti marxisti che il solo suo esame può già apparire sospetto. È accettato una volta per sempre che il proletariato è la filosofia o l’esigenza morale incarnata e che, di conseguenza, «essere morale» significa sostenere il proletariato nella sua lotta.

Tuttavia, essendosi la lotta proletaria da cent’anni incarnata in partiti politici e Stati che devono tener conto dei loro interessi, delle necessità della politica interna e della strategia mondiale, «essere morale» significa fare con convinzione, desiderare di fare tutto ciò che serve alla politica o alla strategia dei partiti e degli Stati proletari. Questa politica e questa strategia sono soggette al regno della necessità e alle sue determinazioni alienanti, e lo resteranno fino alla vittoria completa del socialismo in tutti i paesi. Di conseguenza, chiedere ai marxisti di piegarsi con gioia e convinzione alle necessità politiche e alle ragioni di Stato della lotta proletaria, e di allontanare dal loro animo, come altrettante debolezze pericolose, il dubbio, il disagio, la contestazione e la rivolta, non è meno idiota del chiedere a Oppenheimer di amare le bombe A e H.

Ciò porta inoltre a dimenticare la teoria marxista della alienazione e della disalienazione e a tagliare in due il marxismo, dovendosi ignorare le alienazioni proprie della politica proletaria.

Il discredito nel quale è caduta la l’idea – e l’esame della idea – di una vocazione morale del proletariato, si spiega dunque mediante ragioni diverse dalla perfetta evidenza dell’identità tra «liberazione totale dell’uomo» e «lotta proletaria». Difatti, il lento spegnersi di tale idea fa sì che spesso ci troviamo oggi di fronte a un marxismo mutilato che non permette di comprendere perché e in che cosa il proletario sia esigenza morale in quanto forza storica.

Nella prospettiva di codesto marxismo mutilato, non si pone il semplice problema di una vocazione morale del proletariato. Basta constatare che «a un certo stadio del loro sviluppo, le forze produttive materiali entrano in contraddizione coi rapporti di produzione esistenti… da forme di sviluppo, tali rapporti diventano ostacoli. In questo caso si apre allora un’epoca di rivoluzione sociale».

Nei riguardi della borghesia, si constaterà che essa «è diventata incapace di esercitare a lungo il ruolo di classe dirigente e di imporre alla società come legge regolatrice le condizioni d’esistenza della sua classe… l’esistenza della borghesia non è compatibile con quella della società. Lo sviluppo della grande industria toglie di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa ha impostato il suo sistema di produzione e di appropriazione. La borghesia innanzitutto produce i propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili… Le concezioni teoriche dei comunisti… non sono che l’espressione generale delle condizioni reali di una lotta di classe esistente, di un movimento storico che si opera sotto i nostri occhi».

Nei riguardi del proletariato, si constaterà che esso incarna la negazione storica della borghesia: «Non si tratta di sapere ciò che questo o quel proletario, o l’intero proletariato, si propone momentaneamente come scopo. Si tratta di sapere che cos’è il proletariato e cosa deve storicamente fare in conformità col suo essere. Il suo scopo e la sua azione storica gli sono delineati, in maniera tangibile e irrevocabile, nella sua situazione di esistenza, come in tutta l’organizzazione della Società borghese attuale».

Tutte queste considerazioni non contengono il minimo giudizio di valore. Sono fatte dall’esclusivo punto di vista di uno sviluppo materiale. Esse mettono in luce necessità di fatto. Attenendosi a queste, sembrerebbe dunque che il proletariato, prodotto dalla Storia allo stesso titolo di ogni altra classe, non avesse sugli altri alcuna superiorità; i suoi fini, al pari di quella della borghesia, gli sarebbero dettati dalla sua situazione oggettiva. La medesima logica dei fatti che ha prodotto il mondo capitalista dovrebbe produrre ineluttabilmente il mondo socialista. La morale non c’entrerebbe per nulla.

Ora, è veramente impossibile attenersi a ciò. Una cosa è prevedere scientificamente (vale a dire dal punto di vista dell’esteriorità) il senso di uno svolgimento storico; altra cosa è interrogarsi sul significato che ha per noi tale svolgimento: lo troviamo desiderabile o minaccioso? Vogliamo accelerarlo o combatterlo? Possiamo vedervi il fine delle nostre azioni o la loro negazione? Sappiamo che la risposta di Marx a tutti questi quesiti è positiva. Sappiamo che considerava il contenuto della lotta proletaria preferibile al contenuto della prassi di ogni altra classe; sappiamo che egli vedeva nella nel proletariato la classe che «avrebbe emancipato tutte le sfere della Società», che avrebbe assicurato la realizzazione totale dell’uomo e la totale umanizzazione del mondo. Sappiamo che per Marx il fine di classe del proletariato, benché fosse «irrevocabilmente tracciato» non si confondeva soltanto con necessità oggettive, ma col fine proprio dell’uomo. Su che cosa si basava dunque questa preferenza filosofica di Marx per il proletariato? In nome di che cosa Marx giudicava i fini di classe del proletariato superiori a quelli di ogni altra classe passata o presente? A tale quesito tenterò di rispondere, riconoscendo la filosofia della libertà implicita nella filosofia marxista.

La differenza essenziale fra il proletariato e tutte le classi che l’hanno preceduto o che con esso coesistono, sta nel fatto che l’azione dei proletari non è imposta da alcun interesse particolare o generale: essi non devono che difendere la loro vita. Tale situazione non è dovuta alla sola povertà dei proletari.

Artigiani, negozianti, piccoli contadini possono vivere in una miseria maggiore o anche peggiore di quella degli operai salariati; e, tuttavia, a differenza di costoro, per il solo fatto che possiedono gli arnesi di lavoro, i prodotti o i mezzi di sussistenza, la loro condotta resta delineata dall’esigenza dell’essere materiale nel quale si identificano. Questo essere materiale (laboratorio artigiano, bottega, terra coltivata) è cosa loro, la loro proprietà, e poiché essi si definiscono attraverso tale proprietà, questa è essi stessi in quanto cosa.

Questa cosa che essi possiedono, abitano, che a sua volta li possiede e li domina, sviluppa attraverso essi le proprie esigenze materiali: chiede di essere mantenuta, sviluppata, difesa contro le forze naturali e sociali. Ed è senza dubbio la loro vita che essi difendono attraverso questa. Soltanto, la loro vita stessa non si pone direttamente. Si pone sempre mediatamente attraverso la cosa posseduta, che è la persona stessa come essere esteriore e inerte. Per questa ragione allorché il proprietario,, benché miserabile, difende la propria vita, non è la voce del bisogno, né quella dell’«esistenza nuda» che udite; è la voce della «sollecitudine»; è la cosa umanizzata che parla per bocca dell’uomo fatto cosa. Tale voce vi parla di tutto, tranne che dell’«uomo umano» stesso. Espone mille esigenze ma queste si offrono immediatamente come esigenze proprie della cosa, vale a dire come interessi materiali. In una parola, si tratta di esigenze che vengono all’uomo dall’esterno, dai punti più lontani, attraverso la sua cosa, si tratta di esigenze eteronome e alienate.

Il proletario, inoltre, non possiede nulla in proprio fuorché la sua forza di lavoro, la sua capacità di fare. Per di più, questa gli si riflette attraverso le macchine e il salario, attraverso i fini estranei ai quali è asservita come cosa stratta dalla quale gli altri traggono profitto, vale a dire come sua non proprietà assoluta. In un certo senso, egli non è che cosa astratta; ha anch’esso il suo essere esterno: nella materialità del lavoro reso cosa e quantificato in salario.

La difesa del lavoro e del salario deve dunque essere presentata come l’interesse del proletario? Sarebbe accontentarsi di parole. Perché dove è stato detto che il lavoro e il salario sono proprietà del salariato? A chi si vuol far credere che il proletario difenda il proprio lavoro e il proprio salario come la propria persona, allo stesso modo che il datore di lavoro difende la sua proprietà? Lungi dall’essere l’interesse del proletario, il lavoro salariato è, al contrario, la negazione del suo lavoro e del suo essere personale, la realtà del suo essere sfruttato e spossessato, il divenire cosa di proprietà altrui. Il lavoro salariato designa subitamente il lavoratore come non proprietario del suo salario, della produzione e dei mezzi di produzione, come lo strumento richiesto dalle macchine e dal processo produttivo. Il proletario ha dunque il suo essere fuori di sé; e non lo ha fuori di sé come sua proprietà, ma come negazione di ogni proprietà e anche di ogni qualità umana. E se è evidente che questo uomo‑strumento esige, al pari di ogni strumento, di essere conservato, riparato, pulito, messo al coperto, eccetera, non è per se stesso, è soltanto per il padrone che la manutenzione, la riparazione, la pulizia, la cura del «materiale umano» sono un interesse. Per il proletario si tratterebbe di un interesse qualora egli venisse a considerare se stesso dal punto di vista dell’esteriorità radicale, come un qualsiasi strumento necessario all’andamento dell’officina. Ora, per quanto profonda sia la loro mistificazione, è evidente che gli individui non sono mai tanto gonzi da considerarsi solamente proprietà degli altri. Il solo interesse che conoscono, è l’interesse del padrone; sanno che il padrone ha interesse che le macchine girino, che le ordinazioni siano eseguite nel tempo prestabilito, le spese fisse coperte e il capitale investito ammortizzato; ed è per questo che essi possono servirsi dell’interesse padronale contro il padrone stesso, costringendolo, mediante lo sciopero, a soddisfare le loro rivendicazioni. (Inversamente, allorché gli stock si accumulano, sospendono lo sciopero proprio perché servirebbe l’interesse padronale.) Ma il motivare la rivendicazione non può essere in alcun modo considerato come un interesse: non è per interesse – vale a dire perché il loro essere materializzato lo esiga – che i proletari difendono il lavoro salariato o chiedono aumenti; è soltanto perché essi hanno bisogno di un salario per vivere. Essi non agiscono che in nome dei loro bisogni umani; e tali bisogni, lungi dal confondersi colle esigenze inerti (con l’interesse materiale) della cosa che essi sono fuori di se stessi come lavoro‑merce, sono in opposizione diretta con le esigenze di tale cosa.

Il lavoro in quanto merce (vale a dire come interesse padronale determinante l’essere proletario), deve costare il minimo e rendere il massimo. La necessità umana del lavoratore è esattamente inversa.

Il lavoro in quanto merce deve potere o non potere essere acquistato a volontà. Il bisogno vitale del proletario, invece, è che il lavoro e il salario gli siano assicurati come diritto e come proprietà. Ma precisamente, lavoro e compenso diventeranno proprietà del lavoratore soltanto se il prodotto del lavoro e i mezzi di produzione diventeranno proprietà sociale dei lavoratori. In altre parole, il proletario non ha alcun interesse ad essere proletario, non ha alcun interesse di proletario, non deve difendere che la sua vita; il suo interesse sarebbe di non essere proletario.

Ricapitolando, ciò che i proletari oppongono agli interessi materiali del padrone, alle ragioni di Stato, alle necessità economiche, non è il loro interesse, è il loro bisogno umano. Il proletariato non può fondare la sua rivendicazione su altro diritto che su quello umano, su altre esigenze che sul proprio bisogno. È destinato ad agire, a contestare e a rivendicare in suo proprio nome, senza garanzia trascendente, in nome della «nuda esistenza». È destinato all’autonomia. La nozione di «destinazione all’autonomia» mi sembra la più propria a rendere l’ambiguità della prassi di classe del proletariato. Tale prassi, in realtà, si offre come non avente altra ragione all’infuori del bisogno umano, e, nello stesso tempo, come assolutamente imperativa. I proletari «non possono non rivoltarsi» contro condizioni di esistenza diventate «insopportabili» e neganti loro ogni possibilità di sopravvivere; essi sono «costretti direttamente, a causa della miseria ormai ineluttabile, impossibile a mascherarsi, assolutamente imperiosa – mediante l’espressione pratica della necessità – a rivoltarsi contro tale inumanità…». La «necessità» che «costringe» i proletari alla rivolta non è tuttavia una necessità esterna, una esigenza delle cose; è una esigenza propria dell’esistenza umana che si ritorce, per negarlo, contro lo statuto materiale che le vien fatto nel mondo delle cose. Dal punto di vista della società alienata dove l’individuo è il servente inessenziale delle cose promosse al rango di essenziali, tale rivolta è illegittima, essendo in gioco soltanto la vita dei proletari, e non un interesse superiore. La legittimità è piuttosto dalla parte dell’imprenditore che difende, al di là dei propri benefici, la vitalità della sua Impresa. La quale è cosa seria ben più della vita di un materiale umano abbondante. Il materiale umano, infatti, è sostituibile, e può stringere la cinghia. I bisogni delle macchine e l’equilibrio finanziario dell’impresa, invece, sono incomprimibili e rigidi. Con questi non si può discutere come con degli uomini. Allorché l’imprenditore riduce i salari reali e licenza del personale, ha dalla sua il diritto, la ragione costituita, il linguaggio indiscutibile e oggettivo dei fatti: occorre contenere il prezzo di costo. Allorché i proletari, invece, si rivoltano contro i salari troppo bassi, non hanno per sé alcun titolo storico, alcun diritto codificato, alcun fatto irrecusabile: per poter provare che non possono vivere in «quelle condizioni» dovrebbero essere già tutti morti. La ragione della loro rivolta è dunque, in vasta misura, una questione di giudizio «soggettivo»: «non si può andare avanti così». E perché no? «Perché ne abbiamo abbastanza; non se ne può più». Ma poiché è impossibile provarlo a meno di ammazzarsi nel lavoro, e proprio per non essere ammazzati nel lavoro essi si rivoltano, i proletari sono costretti a porre la loro rivendicazione nella sua autonomia: contestano le esigenze dell’economia mediante bisogni che, secondo la formula di Marx, «sono in se stessi la ragione della loro soddisfazione».

Per il proletariato, la necessità della rivolta si unisce dunque alla necessità della libertà. Tutte le istanze sociali, giuridiche e finanziarie sono là per provare che la soddisfazione dei bisogni proletari è impossibile. Tuttavia, rivoltandosi, i proletari manifestano, contro le necessità e impossibilità di fatto che li annientano, l’irriducibilità dell’esigenza umana, la sua autonomia, la loro libertà. È loro impossibile non assumere questa libertà, non coglierla come fondamento unico della loro azione.

Non si creda, infatti, che una rivolta operaia in ambiente capitalista possa essere soltanto una «reazione istintiva» della «natura umana» tendente a «salvaguardarsi». Nulla è più falso, all’occorrenza, dell’idea di una «natura umana» che, passato un certo stadio di miseria, reagirebbe automaticamente e in maniera esplosiva contro quanto la vessa. È facile, invece, dimostrare che la «natura umana» è stata distrutta da molto tempo e radicalmente dalla pratica simultanea della miseria e del lavoro operaio, e che tale distruzione ha fatto del proletario l’uomo della libertà radicale.

A differenza della miseria assoluta del «selvaggio», la miseria del proletario non ha, in realtà, nulla di naturale. Non è dovuta né al clima, né alla povertà del suolo, né ai cataclismi. Essa si presenta come fatto sociale: la società rifiuta le ricchezze a coloro che le producono direttamente. La natura non ha a che vederci, e il proletario non la vede da nessuna parte. Il suo ambiente urbano è la negazione materializzata della natura, la natura distrutta e sostituita dal suo contrario: l’industria umana. Questa si è impadronita delle forze cosmiche, ma in modo da asservire più duramente l’operaio, e soprattutto più evidentemente, delle stesse calamità naturali. Essa infatti giunge fino a privarlo della soddisfazione dei bisogni biologici più elementari. Nelle società agricole, la soddisfazione di tali bisogni «veniva da sé» fino a un certo punto: erano «naturali»; lo spazio, l’aria e l’acqua erano almeno di tutti, e se non si mangiava tutti i giorni, per lo meno si poteva respirare, correre, dissetarsi e lavarsi a piacimento. Nulla di tutto questo nelle periferie delle città e nelle «bidonvilles» delle società industriali; qui lo spazio, l’aria, l’acqua e la luce appartengono a dei proprietari: respirare, bere, lavarsi, defecare diventano privilegi da acquistare o da strappare con aspra lotta. «Anche il bisogno di aria aperta cessa di essere un bisogno per l’operaio; l’uomo ricomincia ad abitare le caverne, che oggi sono avvelenate dall’ignobile esalazione pestilenziale della civiltà; l’operaio non le abita che precariamente e sono per lui una potenza estranea che può venirgli a mancare da un giorno all’altro, ed egli può anche, da un giorno all’altro, esserne espulso se non paga. Questa casa di morte, se la deve pagare… La luce, l’aria, ecc., la proprietà animale più elementare cessano di essere per l’uomo un bisogno. La sporcizia, questa corruzione e putrefazione dell’uomo che scorre nei rigagnoli della civiltà, diventa l’elemento in cui egli vive. L’incuria totale e contraria alla natura, la natura corrotta diventa l’elemento in cui egli vive. Non esiste più alcun senso non soltanto, a suo modo umano, ma in modo che non ha nulla di umano, anzi di animale».

Minacciato d’asfissia, divorato dagli insetti, debilitato, consumato innanzi tempo in un mondo in cui gli agi, il riposo, la soddisfazione dei bisogni umani sono tuttavia tecnicamente possibili, il proletario non trova più nulla che sia «naturale», che venga da sé. Nemmeno il famoso «istinto di sopravvivenza».

Non è «naturale» per lui voler mangiare, respirare, dormire, vivere quando la società contesta la legittimità di questi bisogni in nome delle esigenze dell’ordine sociale, «conforme alla natura e alla legge divina». Non è «naturale» voler sopravvivere quando la vita, invece di esservi data e assicurata deve costantemente essere riconquistata con aspra lotta, nella strategia e nella disciplina di classe, contro un ordine sociale che ve la nega. Non vi è più nulla di naturale a voler vivere, quando i bisogni biologici più elementari, per il fatto che vien loro socialmente negata la soddisfazione, debbano assumersi come esigenze socialmente illegittime e mediatizzarsi in azione rivendicativa meditata, concertata, piena di rischi. No, se il proletario conserva la propria vita in una società che lo condanna a morte lenta, non lo deve alla natura. Se ottiene la soddisfazione dei propri bisogni biologici – il diritto al riposo settimanale, il diritto di dormire la notte, di respirare, di aver cura del proprio corpo, di distendersi e rinvigorirsi in campi di gioco e in luoghi di vacanza – la possibilità di avere una «natura» sarà precisamente la sua conquista. La sua «natura», vale a dire un mondo nel quale sia possibile avere dei bisogni, sarà qualcosa che egli avrà fatto; sarà la vittoria su un mondo che la negava, il suo prodotto, e lo resterà nella misura in cui gli occorrerà salvaguardare tale conquista contro le forze d’alienazione che la minacciano.

Poiché egli è «la perdita totale dell’uomo», poiché tutto l’uomo, per lui, è da ricuperare in una società che lo nega totalmente; poiché non dispone di nessuna esperienza di umanità, ma la minima possibilità di essere uomo è già sua conquista, il proletario rivoluzionario apparirà come l’incarnazione della «antiphysis», come l’uomo del fare totale.

Lungi dunque dall’essere «l’istinto di sopravvivenza» o il bisogno biologico a spingere il proletario a una rivolta tutta passionale, egli può assumere i suoi bisogni soltanto assumendo nello stesso tempo la propria autonomia. Uno non può andare senza l’altro. Egli non può sostenere che la sua miseria è diventata insopportabile senza affermare allo stesso tempo che la sua condizione sociale, e quella società sono insopportabili. Egli non può pretendere la soddisfazione di un bisogno senza porsi come esigenza libera, non basandosi che su di essa, non ammettendo che le leggi date da essa e poste come fondamento. La impossibilità per il proletariato di assumere i suoi bisogni senza contemporaneamente assumere la propria autonomia di soggetto, spiega spesso il carattere tardivo della sua rivolta. Per qual ragione ha sopportato così a lungo la sua miseria prima di trovarla insopportabile? Perché non era abbastanza gravosa per sembrargli tale? Supponendo anche che sia così (ma è vero spesso il contrario), che cosa si deve intendere con ciò? Materialmente, la miseria, al momento della rivolta, non è più opprimente di quanto lo fosse nel passato; talvolta lo è meno. Ma è sempre di più sentita come tale. La rivolta ha impiegato molto tempo a maturarsi

È stato necessario del tempo e soprattutto del lavoro per dare al proletariato coscienza della sua miseria, coscienza delle sue necessità; per dargli il coraggio di assumere tali necessità e di rivoltarsi contro la miseria. Questo lavoro di incoraggiamento, di educazione, richiede tempo, perché non è cosa da poco, né soprattutto cosa «naturale» per un uomo, sfidare le leggi scritte, i tabù sociali e religiosi, l’immagine di se stesso che gli oppressori gli hanno inculcata (immagine di un essere inferiore, illegittimo, debole, vile, impastato di vizi); non è cosa da poco decidere che le necessità da lui sentite sono più vere e più legittime delle leggi della Società, della morale e della religione. Ora, egli non può più rivoltarsi senza prendere questa decisione. Non può trovare la sua miseria insopportabile senza darsi ragione contro tutte le istanze morali, religiose, giuridiche che gli danno torto. Non può rivoltarsi senza rifiutare tutte le garanzie morali e materiali, per porsi come solo fondamento di ciò che l’uomo deve essere.

Il tempo necessario al maturarsi della rivolta, è dunque spesso il tempo che occorre agli oppressi per vincere il fatalismo, la mistificazione – lo stato di inferiorità, di colpevolezza, di illegittimità al quale li destina la Società – e per osare di assumersi il rifiuto inespresso che portano in se stessi. Non può esservi rivolta senza questa demistificazione, senza questa presa di coscienza dell’autonomia umana. Ma inversamente, tale presa di coscienza non si attua che attraverso la rivolta. Essa è rivolta. L’educazione politica può provocarla in qualcuno che, in anticipo sul grado di coscienza della massa, preparerà l’azione collettiva e, per questo lavoro preparatorio, si troverà già in rivolta contro la Società. Ma solo l’azione collettiva stessa può provocare quella presa di coscienza nella massa dei proletari. Ai capi rivoluzionari si pone dunque questo problema: la presa di coscienza è necessaria all’azione, ma soltanto l’azione può provocare la presa di coscienza. Il solo mezzo per dimostrare agli oppressi che possono rifiutare i tabù religiosi e legali, che sono liberi d’agire, è quello di dimostrare loro che già agiscono e rifiutano.

In pratica, ci si allontanerà da questo apparente circolo vizioso, prendendo alla svelta la coscienza delle masse, precipitando queste nell’azione senza lasciar loro il tempo di «attuare» quanto la loro condotta ha di «sacrilego». Tale è il compito degli «agitatori»: provocare un incidente o approfittare di un incidente fortuito per accendere la collera delle masse e, approfittando dell’emozione collettiva, trascinarle in un’azione che, al principio non voluta dal maggior numero, proprio su questo porrà le basi della coscienza della sua autonomia e della rivolta contro tutte le alienazioni. L’indignazione passionale contro una iniquità particolare – spesso piccolissima al confronto di quella del sistema globale d’oppressione – sarà rapidamente superata per attuare una rivolta generale contro l’alienazione globale. Il minimo rifiuto porta in sé e crea la possibilità di un rifiuto radicale – e la coscienza di una libertà radicale – perché il minimo rifiuto manifesta già, obbiettivamente, una libertà totale. Sarà questa libertà oggettiva che gli oppressi scopriranno attraverso l’azione e apprenderanno a rivendicare partendo da essa.

L’attualità offre un esempio sorprendente di tale dialettica. Circa 5.000 Africani percorrono ogni giorno i 16 chilometri che separano Johannesburg dalla periferia nera di Alexandra. Né i salari di miseria, né la chiusura delle scuole, né il sistema poliziesco dei passaporti obbligatori (il cui numero, per uno stesso individuo, può arrivare a sei), né la proibizione dei sindacati africani, né l’allontanamento, né le avvilenti condizioni di vita delle «bidonvilles» assegnate ai lavoratori africani, né gli arresti e le accuse arbitrarie, né i puntigli aggiunti dal governo alla legislazione razzista avevano mai provocato un movimento di massa di qualche entità.

Nel dicembre del 1956, pertanto, la compagnia, d’autobus che assicurava il trasporto Alexandra‑Johannesburg, decide di alzare la tariffa da 4 a 5 penny. Ad Alexandra viene organizzto un meeting. Gli ottomila abitanti approvano a mano alzata il boicottaggio della compagnia. Tale boicottaggio per cinquemila di essi significa: alzarsi alle 4 del mattino per raggiungere a piedi il luogo di lavoro e rientrare alle 10 di sera; percorrere a piedi 32 chilometri al giorno; privarsi di sonno; essere interpellati e trattati brutalmente dalla polizia lungo la strada; vedere le gomme delle biciclette (quando ce n’è una) sgonfiate dai poliziotti. Tutto questo per un penny, mentre gli autobus vuoti attraversano la strada. Ma quel penny, necessariamente, diventa il simbolo di tutte le ingiustizie. Nessuno può sbagliarsi. Non lo possono gli Africani che decidono un boicottaggio di solidarietà in tutta la regione di Johannesburg, anzi a Durban e al Capo, boicottaggio che, all’apogeo del movimento, mobilita 100.000 camminatori; né il governo Strijdom che vede subito nel boicottaggio di Alexandra una sfida politica alla sua autorità, la quale non è materialmente in causa, essendo il rialzo delle tariffe una decisione locale.

Il moto di Alexandra dura da tre mesi, la linea d’autobus boicottata è stata soppressa, quando la Camera di Commercio di Johannesburg tenta di intervenire. A suo parere, il moto è vinto poiché il suo oggetto – la linea di Alexandra – è scomparso. I Negri sono puniti per la loro rivolta; il camminare a piedi che liberamente avevano scelto è loro ormai imposto; camminano «per nulla». Così almeno crede la Camera di Commercio. Preoccupata di assicurare l’arrivo puntuale dei lavoratori neri al lavoro – e preoccupata, senza dubbio, del rendimento di questo lavoro, che non può che diminuire sotto l’effetto della stanchezza – offre di prendere a suo conto il penny della disputa. Un nuovo meeting viene organizzato ad Alexandra. L’offerta della Camera di Commercio è sottoposta a un vuoto a mano alzata. Con grande stupore delle autorità – e con scandalo di Europei liberali che, fino a quel momento, avevano trasportato nelle loro vetture un notevole numero di Africani – i Negri respingono la proposta di carità.

Quel voto era indubbiamente la prima grande vittoria della resistenza africana. Confermava che il moto, sollevato con un obbiettivo dei più limitati, aveva provocato una presa di coscienza totale. Confermava che fra gli oppressi, una volta messi in moto, chi può meno può di più. Partiti per evitare il pagamento di un penny, i lavoratori africani hanno scoperto che, solidali, disciplinati e risoluti, essi sono invincibili; hanno scoperto che il loro boicottaggio, apolitico nella sua intenzione iniziale, negava di fatti l’autorità della polizia, del Governo, degli Europei; che simile negazione è possibile, e che l’oppressione è impotente a frantumarla e pronto a lusingare i boicottatori perché ha bisogno della loro forza di lavoro. Si tratta ben più di un miserabile penny! Si marcia ora contro la polizia, il Governo, i direttori di impresa, contro l’oppressione razziale e lo sfruttamento economico, contro il potere degli Europei e il loro ordinamento sociale. La marcia diventa una dimostrazione della libertà africana. E del significato oggettivo totale del boicottaggio, della sfida totale e della totale libertà che essa implica, gli Africani prendono coscienza attraverso il loro secondo voto. Una volta sollevata, la loro piccola rivolta si è caricata, nella logica della situazione, di un significato universale, significato che la maggior parte di essi non aveva certo previsto e che riprendono a loro conto mediante il secondo voto. Ora chiedono lo sciopero generale, il diritto di organizzarsi in sindacati e di possedere scuole; la caduta del Governo.

Tali obiettivi erano evidentemente fuori delle loro intenzioni. Ma i Negri di Alexandra avevano preso coscienza della loro possibilità lontana. Accettarono, dopo quattro mesi, il penny della Camera di Commercio. Il successo della loro rivendicazione iniziale era ora vissuto come una disfatta. Attenderanno un’altra occasione, per manifestare le loro esigenze. Attraverso i loro obiettivi particolari, affermeranno allora, sempre più esplicitamente, la loro totale rivendicazione. Obiettivi politici verranno a innestarsi sugli obiettivi immediati e, con successive approssimazioni, renderanno esplicita l’esigenza di una rivoluzione radicale.

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