Ci sorprende, ogni volta, costatare come sia difficile farci capire sulla pratica politica ‒ non solo la sua importanza ma perfino la semplice nozione ‒ anche da donne e uomini comunisti. Ci sorprende perché la tradizione marxista ha sempre messo l’accento sulla pratica. Basti pensare a Gramsci, che parlava di filosofia della prassi per indicare il pensiero stesso dei comunisti.
Vero è che fra la cultura di sinistra e la cultura del movimento delle donne la comunicazione è resa difficile da una notevole distanza di linguaggi e di posizioni. Distanza che, secondo noi, è dovuta proprio alla differenza delle pratiche. Vediamo dunque di misurare questa distanza alla luce delle diverse pratiche politiche.
Ci sembra che la pratica dominante nella sinistra sia (stata) l’organizzazione. A ciò corrisponde il fatto che la sinistra sia piena di organizzazioni. È organizzato il partito, sono organizzati i movimenti, è stata organizzata la stessa condizione umana (donne, giovani), per non parlare degli operai, dei contadini, ecc. Oggi, è risaputo, questa pratica politica versa in una grave crisi, che fa tutt’uno, si può dire e si capisce perché, con la crisi della sinistra. Le organizzazioni sono scollate dalla realtà; non esercitano alcuna attrazione sulle persone più giovani e forse in generale. In effetti sembra esserci un diffuso rigetto di questa pratica sociale (sebbene non si possa dire che si tratti di un fenomeno irreversibile: non è questo il punto). Il movimento delle donne, per parte sua, non ha organizzazione e non ha un centro coordinatore. Anzi, esso è positivamente contrario a ogni forma di organizzazione, compresa quella del semplice coordinamento. E questo fin dalle origini. Ci sono, ogni tanto, tentativi di innovare su questo punto, ma sono sempre falliti e non hanno neanche mai attecchito seriamente.
Al posto dell’organizzazione abbiamo un certo numero di pratiche che molte riconoscono valide, che vengono trasmesse da una situazione all’altra e che vengono riprese anche dalle donne più giovani o da donne che non si considerano femministe. In questo senso, soltanto, si può riconoscere un tessuto unitario.
La politica delle donne è come un insieme di pratiche, insieme che ha una parte più stabile e riconoscibile, e che può tuttavia variare e di fatto varia.
Per importanza e riconoscibilità, viene al primo posto la pratica del partire da sé. Significa che la parola si usa, e la politica si fa, non per rappresentare le cose, né per cambiarle, ma per stabilire o per manifestare o per cambiare un rapporto tra sé e l’altro da sé. O anche tra sé e sé, nella misura in cui l’alterità attraversa anche l’essere umano nella sua singolarità. In altre parole, la pratica del partire da sé presuppone che ogni dire o fare sia una mediazione, e impone di mettere bene in chiaro quello che lì si gioca dalla parte del soggetto. Per smascherarlo? Sì, in caso, ma anche e soprattutto per liberare le sue energie, spesso frenate da rappresentazioni fasulle e progetti sforzati. In questo modo, secondo noi, è possibile stare disponibili alla realtà che cambia.
Molto ha fatto discutere nel movimento il progetto di un campo della pace in Palestina, portato avanti da un gruppo di donne. La cosa ha suscitato discussione e critiche perché il partire da sé di questa iniziativa non è chiaro e non è stato messo in chiaro; una donna formata da quella pratica, in quell’iniziativa ‒ le cui buone intenzioni nessuna mette in dubbio ‒ non può non vedere il rischio di un volontarismo e di un attivismo non estranei all’imperialismo occidentale.
Altro esempio, in positivo. Ci è stato rimproverato di fare politica senza avere già un’analisi della condizione femminile. Chi ragiona così, ha in mente (o, forse, segue meccanicamente) uno schema che non è il nostro.
Noi non partiamo da un quadro generale, ma da contraddizioni vissute in prima persona (come: il blocco della parola nei luoghi misti, l’attrazione-repulsione per il potere, il misconoscimento sociale di sentimenti sentiti per sé come molto importanti, ecc.), che mettiamo al centro del lavoro politico. Così avviene che elementi che la rappresentazione dominante del mondo metteva ai margini, si trovano messi al centro del quadro, corrispondentemente al fatto che già si trovavano al centro della vita vissuta. È così che la visione delle cose cambia e, al tempo stesso, si apre un’altra strada di fare politica, più diretta e incisiva. In effetti, questa strada si è rivelata feconda. Molte vi si sono riconosciute e ciò ha dato luogo a quello che viene chiamato movimento delle donne; le idee e i testi nati da questo movimento, d’altra parte, conoscono una circolazione e un’accettazione estese. Alla pratica del partire da sé noi due facciamo risalire il fatto che oggi le donne possono essere viste e chiamate addirittura «soggetto forte», termine che, detto per inciso, non condividiamo. Un simile risultato non sarebbe mai stato raggiunto se dal primo momento al centro del discorso politico ‒ invece di quella che, nel discorso della sinistra, era la condizione femminile ‒ non fosse stata messa l’esperienza vissuta in prima persona. Osserviamo, inoltre, come questo procedimento per passare dal caso concreto alla teoria, procedimento che sostituisce quello, antico, dell’astrazione, prima che da noi sia stato praticato da Freud: i suoi scritti lo illustrano bene. Un’altra pratica in cui tutte ci riconosciamo, riguarda il passaggio dal politico al non politico, che per noi è senza soluzione di continuità. Perciò noi ci troviamo volentieri in luoghi che sono e non sono politici, come librerie e circoli o case, e mescoliamo le occupazioni politiche con altre che non hanno questo nome, come le vacanze, gli intervalli del lavoro, gli amori, le amicizie. Non diciamo che tutto è politico, ma piuttosto che tutto può diventarlo. O, più semplicemente, che non troviamo criteri e non abbiamo interesse a separare la politica dalla cultura, dall’amore, dal lavoro. Una politica così separata non ci piacerebbe e non sapremmo farla.
A questa esigenza di non separare la politica dalla vita, risponde anche l’uso della parola, segnato anche questo in una qualche misura dalla pratica psicoanalitica. Nei nostri convegni la presa di parola non è codificata; sopportiamo tempi vuoti, silenzi anche prolungati, incidenti di ogni genere; evitiamo per quanto possibile le relazioni già scritte, gli interventi preparati. I convegni, d’altra parte, sono tradizionalmente autofinanziati. I convegni e le altre iniziative danno vita a un nomadismo politico, aiutato dalla pratica dell’ospitalità, che crea una rete di rapporti attraverso cui circolano racconti, cassette, fotografie, fotocopie e testi stampati. Si dirà che tutto questo è tipico di un movimento relativamente giovane e perciò capace di vivere con pochi mezzi. Ma c’è di mezzo anche una scelta di pratica politica e una scommessa in favore di una politica le cui forme non soppiantino le forme della vita. Così, è nostra abitudine riflettere sulle cose che facciamo, contestualmente o quasi al fare, il che dà, alle stesse che agiscono, la possibilità di correggere passo passo il loro fare. D’altra parte, nulla impedisce (e i fatti ce lo confermano ogni giorno di più) che le pratiche da noi inventate si traducano in pratiche comuni alla vita sociale o si saldino con antichi comportamenti femminili, restituendo o dando loro un significato di libertà femminile: a questo punto, non si può più parlare, in senso stretto, di movimento.