Pierre Klossowski (1905-2001) è stato un filosofo-artista francese. Romanziere, saggista, pittore e cineasta, ha tradotto, tra gli altri, Hölderlin, Heidegger, Rilke, Benjamin, Klee, Wittgenstein, Virgilio, Svetonio e Tertulliano. Con Bataille, Masson, Caillois e Wahl ha preso parte all’avventura della rivista «Acéphale». Ha partecipato anche ai lavori del Collège de Sociologie. È noto soprattutto per la trilogia di romanzi Les lois de l’hospitalité (1965). Ma è anche autore di diversi saggi su Sade, Nietzsche, Gide e Bataille. I suoi famigerati “tableaux vivants” sono stati esposti sia in Francia che all’estero.
Siccome l’azione dei miei romanzi procede precisamente da scambi di parole che tendono a differire o annullare qualche fatto compiuto, malgrado la mia riluttanza, non potevo evitare di commentare, una volta di più, la situazione di certi miei personaggi, segnatamente quella di “Roberta”. Ed è proprio su questo genere di situazioni che mi invitate amabilmente a spiegarmi: dalla “chiacchierata” al “dialogo”, dal “dialogo” alla “discussione” saccente, dalla “disputa” alla “lite” domestica – tutti aspetti della conversazione suscitati dai voltafaccia del personaggio di Roberta.
Ma vi è di più: venite a trovarmi, per convincermi, nel mio stesso atelier e, alla prima occhiata sull’ultima serie delle mie composizioni pittoriche, avete esclamato: ecco un esempio di conversazione muta!
Nella fattispecie, però, che cos’è una conversazione muta? Non un codice per sordo-muti, bensì quello del rifiuto di parlare e d’intendersi verbalmente a cui, in una situazione prevedibile o fortuita, due possibili interlocutori si decidono all’improvviso, ognuno per motivi in apparenza diversi.
Il “principio” di una conversazione, primitivamente, è concepito non già come uno scambio di quel che, di fatto, sarebbe scambiabile, ma delle parole che lo designerebbero. Ogni parola non designa altro che delle parole (Gorgia).
Nel contesto di una conversazione, il silenzio che interviene in certi momenti riduce alla sua sola presenza fisica l’interlocutore che, per una qualsiasi ragione, si tace. A partire da qui, il mutismo momentaneo si interpreta in un senso puramente negativo (perplessità – riflessione – dissenso).
Ora, se questo genere di silenzio spinge di norma a considerare la fisionomia muta o taciturna, a interrogarla, a “sondarla” etc. – fatto che già conferisce un carattere scenico anche alla minima discussione degenerante in disputa –, il mutismo implica positivamente un idioma concreto, perché fisico-corporeo. Mediante lo sviluppo integrale delle sue risorse, al livello della sua “riproduzione” il mutismo costituisce l’idioma di due modi di espressione: del quadro in maniera integrale e, parzialmente, dello spettacolo. Perciò ho spesso ripetuto che alcuni dei miei libri (Il Bagno di Diana, La Revoca dell’Editto di Nantes e Roberta stasera – prima de Il Bafometto) sono stati elaborati, in origine, come descrizioni di quadri (ancora non eseguiti) o di spettacoli, specialmente cinematografici. Di cosa stupirsi, pertanto, se il film realizzato da Zucca (sul tema della Revoca e di Roberta stasera) mi ha subito costretto a riprodurre le diverse fasi della sequenza delle sbarre parallele in una nuova serie di quadri?