Günther Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione

L’uomo fa esperienza di sé come qualcosa di contingente, come qualunque, come “proprio io” (che non si è scelto); come uomo che è precisamente così come è (per quanto possa essere tutt’altro); come proveniente da un’origine di cui non risponde e con la quale deve tuttavia identificarsi; come “qui” e come “ora”. Questo paradosso fondamentale dell’appartenenza reciproca della libertà e della contingenza, questo paradosso che è un’impostura, il dono fatale della libertà, si chiarisce come segue. Essere libero significa: essere straniero; non essere legato a niente di preciso, non essere tagliato per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in una postura tale per cui il qualunque può anche essere incontrato in altri qualunque. Nel qualunque, che posso trovare grazie alla mia libertà, è anche il mio proprio io che incontro; questo, pur appartenendo al mondo, è straniero a se stesso. Incontrato come contingente, l’io è per così dire vittima della propria libertà.

Vogliamo partire dalla situazione specifica dell’uomo nel mondo per comprendere il fatto che può esserci in generale esperienza per lui. L’esperienza è l’indice di questa situazione specifica così come dell’intimità tra l’uomo e il mondo, nella misura in cui esprime la loro reciproca comunicazione.

A partire da Kant, l’esperienza è considerata una conoscenza a posteriori, ciò che, dal punto di vista antropologico, significa una conoscenza après coup: l’uomo è installato nel mondo in modo da raggiungerlo après coup, retroattivamente. L’uomo “viene al mondo”; inizialmente ne è escluso. Non è integrato né in equilibrio col mondo, non è tagliato per il mondo. Perciò, non può anticiparne una nozione materiale. È costretto a recuperare il mondo che, già da sempre, è in anticipo su di lui.

In primo luogo, chiariremo questa posteriorità del mondo, questa insufficienza di integrazione e questa estraneità dell’uomo al mondo mettendo a confronto l’esistenza umana con l’esistenza animale, che, d’altronde, ci limiteremo a esaminare solo grosso modo e per sommi capi.

Solitamente consideriamo l’animale come un essere istintuale che, relativamente indipendente dall’esperienza e dalla memoria, ha familiarità con il mondo in cui è installato e che, senza ricorrere all’apprendimento, sa come comportarvisi. La sphex trova senza doverlo cercare il centro nervoso della preda che paralizza, così come l’uccello migratore trova il Sud. Il mondo è dato in anticipo all’animale come il seno al lattante, come l’esistenza di un sesso all’altro. È un mondo che non ha bisogno di essere appreso. È una materia data a priori. Questa materia anticipata è la condizione dell’esistenza animale; più che una conditio sine qua non, essa ne è come il con-ditum, la dote dell’animale. L’animale non viene al mondo, il suo mondo viene con lui. Il principio che regge questa “materia a priori” è tanto semplice quanto sorprendente: la domanda dell’animale e l’offerta del mondo coincidono. La specifica integrazione dell’animale con il mondo potrebbe essere indicata con l’espressione “adeguazione al bisogno”. L’animale non chiede più di quanto il mondo possa dargli in anticipo, anche se non sempre la cosa richiesta è a sua disposizione. Il suo essere è garante dell’esistenza della sua materia a priori, allo stesso modo che il polmone garantisce l’esistenza dell’aria, la bocca quella della nutrizione, e la pinna quella dell’acqua.

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