Paola Imperatore svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca includono la giustizia ambientale, l’ecologia operaia e le politiche climatiche. Co-dirige, assieme a Ilenia Iengo, la rubrica “Italian Political Ecologies” per il blog Undisciplined Environments. Ha recentemente pubblicato Territori in lotta (2023).
I Paesi occidentali sono maggiormente responsabili dell’impennata delle emissioni di gas climalteranti. Allo stesso tempo, i Paesi del Sud globale – per secoli saccheggiati dalle monarchie europee – sono quelli che oggi più di chiunque altro sono esposti alle conseguenze del riscaldamento globale. I dati raccolti dall’UNHCR [United Nations High Commissioner for Refugees/Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati], relativi alla distribuzione degli eventi climatici estremi negli ultimi vent’anni, mostrano infatti che dal 2000 al 2019 i Paesi di Sud America, Africa e Sud-Est Asiatico sono stati tra i più colpiti. Per questo motivo, sin dalla sua origine, il concetto di giustizia climatica è profondamente legato alla dimensione del debito ecologico che il Nord globale ha accumulato a discapito del Sud globale. Tuttavia, questa non è l’unica asimmetria geografica a emergere quando parliamo di (in)giustizia climatica, e crediamo sia importante mettere in luce le diverse declinazioni che questa assume guardando all’intersezione tra riscaldamento globale e specifiche forme di oppressione – declinazioni che non sarebbero comprensibili se lette “soltanto” attraverso questa lente “geopolitica”. Infatti, all’interno di una stessa area del pianeta, dello stesso continente, Paese e persino città, la crisi climatica può produrre situazioni diverse in base a classe, genere, “razza” e provenienza. Questo avviene perché esistono forme di colonialità del potere che definiscono e continuamente ridefiniscono la dinamica centro/periferia, attraverso la quale vengono prodotte le zone di sacrificio, ovvero quelle aree sacrificabili in nome di “interessi nazionali” o “esigenze d’impresa”. La scelta di sacrificare alcuni territori non è ovviamente neutrale, bensì intimamente connessa al valore sociale riconosciuto alle comunità che vi abitano.