Nella sua ultima opera Niccolò Cusano delinea il “vertice della contemplazione” come quella felicità che sola è in grado di saziare il “desiderio supremo della mente”. Riconsiderando in questa luce il cammino speculativo del filosofo, appare chiaro come la sua riflessione affondi le proprie radici nel terreno sempre vivo del pensiero medievale di ascendenza più schiettamente platonica. Il volume propone un confronto ampio tra il pensiero di Cusano e quello di Bonaventura da Bagnoregio, al quale si intende restituire il ruolo di autorità di primaria importanza per la teoresi del filosofo tedesco. Dal Maestro francescano, Cusano riprende in particolare la centralità della tematica del “desiderio”, attraverso la quale viene delineato un approccio alla questione trinitaria che dischiude la ricchezza di una ontologia basata sul concetto dirompente di “infinito” e alternativa rispetto a quella incentrata sulla nozione di “sostanza”. Una ontologia che attesta della fecondità del pensiero dei due autori per la filosofia e la teologia contemporanee. Il volume è arricchito da un’ampia appendice in cui sono riportate le occorrenze bonaventuriane nell’opera di Cusano.
Nel capitolo V dell’Itinerarium mentis in Deum, Bonaventura presenta i due modi o gradi della contemplazione della realtà di Dio come intenzionati ai due nomi divini offerti dalla rivelazione: «Primus modus primo et principaliter defigit aspectum in ipsum esse, dicens, quod qui est est primum nomen Dei. Secundus modus defigit aspectum in ipsum bonum, dicens, hoc esse primum nomen Dei». Il primo nome, “esse”, fa riferimento alla rivelazione offerta a Mosè in Es. 3, 14, ed è considerato il «primum nomen Dei» dal Damasceno; il secondo si appoggia invece alla rivelazione neotestamentaria ed è stato assunto come primo nome di Dio da Dionigi. Tale nome, “bonum”, guarda alla pluralità delle persone nella semplicità dell’essere divino, indicando verso una concezione relazionale del primum e prendendo perciò in considerazione il dogma trinitario. Allora, nel capitolo seguente – il VI, dedicato alla conoscenza speculare della Trinità divina, attingibile attraverso il suo nome, «quod est bonum» –, si invita a considerare attentamente l’optimum, ovvero il “sommo bene”. In Dio – come Bonaventura aveva già illustrato rispetto all’altro suo nome, “essere” – qualsiasi attributo richiede di venire considerato come “sommo”, cioè nella dimensione dell’immenso e della fondamentalità, seguendo il movimento di fondo dell’argumentum anselmiano, che Bonaventura caratteristicamente trasla da argomento “ontologico” ad “agatologico”, incardinato quindi sull’attributo bonum. Il Bene, se considerato sommo, è tale che «simpliciter est quo nihil melius cogitari potest» e, quindi, da concepire come necessariamente esistente, «quia omnino melius est esse quam non esse»; inoltre, conclude Bonaventura, per averne un’idea corretta, il sommo bene è da concepirsi come trino e uno.