Una improrogabile decisione

All’origine storica del concetto di “cittadinanza”, la dimensione politica e civile (demos) comprendeva un set di diritti legato alla dimensione naturale, alla nazionalità intesa prevalentemente come natalità (ethnos). Vincolare la cittadinanza al dato di fatto nazionale è stato il modo in cui lo Stato moderno è riuscito a coinvolgere larghe fasce della popolazione nella sfera pubblica, chiamando alla partecipazione anche chi condivideva con coloro lo circondavano il solo aspetto nazionale.

Un paio di secoli dopo, tuttavia, l’Europa ha tragicamente sperimentato il prevalere, in quella coppia cittadinanza-nazionalità, della dimensione fattuale su quella storica, di quella nazionale su quella della cittadinanza: l’aspetto naturale, che fino ad allora aveva servito l’aspetto politico e storico della cittadinanza come uno strumento serve il fine, con il Nazismo diventa esso stesso fine, al servizio della cui purezza era sfruttato il concetto di cittadinanza. Il fatto naturale diventava compito storico, la preservazione della nazione diventava compito politico.

L’orrore nazista ha insegnato al mondo intero che nazione (ethnos) e cittadinanza (demos) sono oggetti da distinguere con cura e da maneggiare con molta prudenza. Il superamento dello Stato-nazione nel Primo dopoguerra ha trovato un ulteriore senso nel Secondo. La nascita di realtà politiche di governance transnazionale più che internazionale pareva orientare la storia occidentale e mondiale verso un cosmopolitismo sempre più consapevole, verso una cittadinanza globale. Questo, malgrado tale governance fosse sempre più colonizzata da una razionalità neoliberista, che fondeva la dimensione politica della cittadinanza con un’altra dimensione presunta naturale, quella del mercato, ambiente in cui ciascuno è impresa a sé, responsabile unico delle proprie scelte, dei propri rischi, nodo di una rete di regole rispetto a cui lo Stato, sempre meno emanazione di una volontà sovrana, è chiamato a predisporre le condizioni di vigenza.

Oggi arrivano i nuovi sovranismi. O, meglio, i nazionalismi nostalgici di quel connubio antico e tossico di storia e natura, Stato e nazione, demos e ethnos. Sovranismi che non reclamano un nuovo vigore della volontà della cittadinanza contro le eteroimposizioni neoliberiste, ma che, anzi, sul calco del nazionalismo più classico, fingono di reclamare un nuovo spirito di cittadinanza, riducendolo tutto alla nazione, per la cui sicurezza – surrogato della purezza – si decreta l’opportunità o meno di estendere la cittadinanza: è nella sostituzione della sicurezza alla purezza che il sovranismo accetta di sostituire l’aspetto naturale della nazione con quello quasi-naturale del mercato.

Pur nella differenza delle voci in campo, il potere si presenta sempre impegnato nella designazione di un fuori e di un dentro, come una improrogabile decisione capace al contempo di funzionalizzare la dimensione esterna rispetto alla propria radicazione all’interno. Ciò che muta sono i criteri di scelta mediante cui si circoscrive una zona interna rispetto a una esterna.

E così, da un lato, gli spiriti in senso ampio liberali chiedono, con lo ius soli, un ritorno al vincolo della cittadinanza a quello fattuale della territorialità e a quello naturale della nascita, quasi in un revival della biopolitica moderna, nel tentativo di estendere diritti e doveri di cittadinanza a chi, per le proprie origini, ne rimarrebbe escluso.

Dall’altro lato, invece, gli attuali sovranismi alternano un discorso di difesa della nazione e un discorso più contemporaneo, che, conformando la decisione sovrana alla razionalità neoliberista, accoglie come nuova “natura” l’ambiente di mercato, con i suoi calcoli e le sue leggi: sebbene venga celata dietro un’affermazione di sovranità nazionale, la difesa dei confini si riduce, a ben vedere, a un filtraggio di uomini e merce regolato dalle urgenze proprio di quel mercato che minaccia la sovranità statuale.

Ma c’è un ulteriore aspetto su cui vale la pena insistere: la cittadinanza trattata come un premio o un castigo, come merito o demerito per atti eroici o per atti criminosi. Avviene che, nel paradossale aggiornamento neoliberista del sovranismo odierno, che tenta di salvare lo Stato riducendolo a funzione della legge del mercato, una massa di individui, materia umana indistinta, carne senza altra qualificazione, si lanci nell’impresa di sopravvivere a guerre, fame, mercanti di uomini, mare, neve. Solo materia indistinta, denudata da ogni altra qualificazione, che già le avverse condizioni della migrazione cui sono sottoposti decimano, avvicinando a noi solo un sottoinsieme, quello dei più “forti”. In questo sottoinsieme, il meccanismo sovranitario può scegliere quelli da lasciare nella condizioni di fantasmi privi di diritti e costretti a espedienti criminali perché sia legittimata la retorica sicuritaria che dipinge lo straniero come un pericolo; quelli, altrettanto invisibili, da riservare al capitale, perché siano sfruttati come manodopera e come concorrenza al ribasso dei diritti; quelli che, ancora invisibili al diritto ma già più visibili agli occhi, rimangono rinchiusi entro recinti materiali o culturali, in attesa che l’arbitrio della politica – che ha inesorabilmente sostituito lo stato di diritto – stabilisca cosa ne sarà di loro. È qui che la decisione sovrana di chi è dentro e chi è fuori si aggiorna ancora una volta in termini neoliberisti, per cui in un calcolo di costi e benefici, si avvicina l’essere umano dotandolo di diritti o spogliandolo perfino dei diritti umani in base a meriti o demeriti. Il sogno nazionalista aggiornato alla razionalità neoliberista è l’individualizzazione di ciascuno, con il proprio carico di responsabilità, di rischi, di meriti e di demeriti, in una rete quasi-naturale di interessi in cui ci si gioca la propria permanenza nel riconoscimento dei diritti, perfino di quelli umani, a conferma che non è sufficiente essere umani per essere trattati come tali. Bisogna dimostrarsi meritevoli di essere chiamati umani.

E si tratta di una razionalità così penetrata nelle nostre menti che anche chi la avversa ne potenzia gli strumenti retorici, proponendo un discorso analogo e speculare che ricerca nella nazionalità straniera di eventuali benefattori o nella connazionalità di eventuali aggressori l’unico argomento critico. Dimenticando il senso della cittadinanza, dimenticando perfino quel revival rappresentato dallo ius soli, e quasi a conferma che sia necessario dimostrarsi meritevoli per essere considerati degli umani, e pronti a rischiare la vita per essere considerati dei soggetti di diritto.

Carlo Crosato

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