O giovinezza, tanto lieve al mondo
O giovinezza, tanto lieve al mondo
che la bilancia sua non ti registra.
(Anonimo XVII sec.)
Il film di Francesca Archibugi Mignon è partita (1988) racconta un anno vissuto da una famiglia di Roma. La madre ha un marito infedele e spesso assente e cinque figli. Uno di loro, Giorgio, prossimo ai quattordici anni, è il protagonista, dotato anche della propria voce fuori campo. Un giorno una fanciulla di 15 anni, Mignon, che ha sempre vissuto a Parigi ed è cugina dei cinque figli ma a loro sconosciuta, viene a trascorrere un periodo di tempo nella nuova famiglia. Nonostante fra Mignon e Giorgio si formi presto un forte legame affettivo, il ragazzo si innamora di Mignon senza esserne corrisposto, ciò di cui soffre profondamente, risvegliando negli spettatori – o almeno in coloro che, ancora adulti, custodiscono un ricordo ricco dell’adolescenza – l’émpito di sensazioni e lo scoordinamento del razionale di quando ci si innamorava la prima volta.
Poco prima della conclusione del film si manifesta però un imprevisto registico, inizialmente indecifrabile. Lo schermo diventa nero del tutto, ma non si tratta di un problema tecnico. Un breve attimo dopo che lo schermo si è oscurato, nel buio una voce d’uomo recita sobriamente i primi due endecasillabi di una poesia di Sandro Penna, da cui l’argomento di questo mio scritto.
Amore, gioventù, liete parole,
cosa splende su voi e vi dissecca?
Conclusasi la recitazione le immagini riprendono vita, quotidianità e luce: tutta la famiglia è attorno al tavolo della cucina, e il buio serviva per dare risalto alle candeline accese sulla torta, preparata per il compleanno della madre. Si capisce inoltre che a recitare i due versi della poesia è stato il padre, che ora la conclude:
Resta un odore come merda secca
lungo le siepi cariche di sole.
Il buio non è però soltanto uno sfondo, ma si manifesta soffice, fresco e misterioso, privo dell’odiosa necessità. Le parole della poesia che lo riempiono, che enfatizzano l’effetto di una verità emotiva, sentimentale e cognitiva, ci consentono di capire il valore della poesia che ho riportato integralmente; non solo: ma anche il valore della poesia in generale e via via quello di tutta l’arte. Sandro Penna, quasi fosse una Sfinge benevola e mesta, una delle tre Parche, un Nostradamus dedito allo studio della natura umana, dichiara il senso e le ragioni del film e perciò dell’amore degli adolescenti, spesso vilipeso e nascosto da adulti disseccati nella soffitta del non significante. Per Penna e per la Archibugi, la giovinezza, le parole liete, dal poeta usate per tutta la vita, sono casi tanto meravigliosi da far sì che il loro splendore, a chissà cosa dovuto, le faccia iridescenti, inebrianti, pegno di un paradiso soggettivo che può apparire come blasone, come un aquilone lontano eppure eloquente; o manifestarsi quando i due innamorati si abbracciano, si tengono per mano, si baciano. Penna ha scritto “splende”, verbo usato in genere per connotare un’esperienza andata a buon fine, una vittoria interiore. Ciò che splende dà luce e nitidezza, ci fa vedere la realtà in un modo nuovo. Ma essendo lo splendore di cui dice il poeta causa del disseccarsi del meglio della vita, avrebbe potuto servirsi di “brucia”, “arde”, “frigge”. E invece quello splendore è tale da essiccare con intima serenità.
Il miracolo letterario è nel quinto vocabolo del terzo verso: “merda”. Credo che pochi altri, se non in àmbito comico-realistico o crudo, sgradevole, siano riusciti a collocare il vocabolo al culmine di una poesia, di renderlo vetta espressiva, di farlo struggente confessione di infinita nostalgia. Qualcuno ricorderà l’amore della giovinezza, l’essersi trovati all’entrata del paradiso, ma anche il non essere riusciti ad esprimere e a compiere ciò che andava detto e fatto perché la relazione non terminasse troppo presto; un paradiso peraltro negato da Penna, e l’idea su cui il film si conclude.
Il buio e la poesia che ne è accolta sono latori di un concetto esistenziale ineludibile. Lo sconosciuto agente che dissecca ritorna nel quarto e ultimo verso: un sole forte, vitale ma tanto ricco di implicazioni da non potere soltanto illuminare le siepi bensì caricarle di peso, quasi la luce fosse frutta matura da raccogliere. Questo sole è come un camion carico di fichi, contiene nel suo breve ma determinante esistere la fatica propria di ogni storia d’amore, le soste impreviste, l’attenzione necessaria a che il carico – l’interiorità precariamente governata – non debordi. Ma se ci sono cose che gli adolescenti vogliono tenere a interminata distanza, esse sono proprio le soste forzate, l’attenzione e la fatica.