Maurice Blanchot (1907-2003), narratore, critico e pensatore, è stata figura di spicco nella cultura novecentesca. Pur prossimo alle vicende politiche e sociali del suo tempo, Blanchot ha sempre rifiutato il ruolo pubblico e la visibilità mediatica sostenendo, fin dai primi scritti, di consacrare la propria vita alla letteratura e al silenzio che le appartiene. Tra le sue opere, tradotte in italiano, si ricordano Lo spazio letterario (1967/2018), Il libro a venire (1969), L’attesa, l’oblio (1978), La conversazione infinita (1977/2015), La follia del giorno (1982), Da Kafka a Kafka (1983), Il passo al di là, La sentenza di morte (1989), La comunità inconfessabile (2000), L’amicizia (2010).
A che tende questo linguaggio? Sprachgitter: parlare, sarebbe allora trattenersi dietro la grata – quella delle prigioni – attraverso la quale si promette (si rifiuta) la libertà del fuori: la neve, la notte, il luogo che ha un nome, che non ne ha; oppure credersi provvisti di questa grata che fa sperare che ci sia qualcosa da decifrare e, in tal modo, richiudersi ancora nell’illusione che il senso o la verità siano liberi, là, nel paesaggio, dove la traccia non inganna? Ma, poiché la scrittura si legge sotto la specie di una cosa, di un fuori di cosa che si condensa in questa o quest’altra cosa, non per designarla, ma per iscriversi moto ondoso di parole sempre in cammino, il fuori non si legge ancora come una scrittura, scrittura senza legami, già sempre fuori di sé: steli d’erba, scritti gli uni fuori degli altri? Forse il ricorso – è un ricorso, un appello? – è nell’affidarsi, oltre la rete del linguaggio (occhio, rotondo dell’occhio tra le sbarre), all’attesa di uno sguardo più largo, di una possibilità di vedere, di vedere senza le stesse parole che significano la vista.
La vista quindi (forse), ma sempre in vista di un movimento, associata a un movimento: come se si trattasse di un andare verso l’appello di quegli occhi che vedono di là di ciò che c’è da vedere: occhi ciechi al mondo, occhi che la parola sommerge fino alla cecità, e che guardano (o hanno il proprio posto) nella successione delle fessure del morire…