Si pronuncia tutto attaccato, senza pause di respiro né di riflessione. DiegoArmandoMaradona. Perché rappresenta un’icona che va oltre le “semplici” regole linguistiche. D’altronde, secondo Charles Peirce, l’icona è uno dei tipi fondamentali dei segni della semiologia, che si trova in un rapporto di estrema somiglianza con la realtà esteriore. In base a tali regole, dunque, è corretto dire “Maradona è il calcio”, oppure, come recita il titolo odierno (26 novembre 2020) del quotidiano italiano la Repubblica: “Il calcio va in paradiso”. Intendendo con calcio, appunto, Maradona. E la correttezza dello sguardo che caratterizza tale espressione è confermata anche da un altro significato del termine icona, ossia un personaggio emblematico di un’epoca, di un ambiente, di un genere. Maradona dunque è il calcio. Lo è stato e lo sarà, considerando soprattutto le possibilità di creazione e conservazione digitale di prodotti audiovisivi e di racconti.
Ma un’icona intesa in quest’ultima accezione non può esistere senza la società, ossia senza qualcuno che la crei, la utilizzi, la diffonda. Come si verifica questo processo? Proviamo a tracciarne il percorso, ripercorrendo parti della biografia del Pibe de oro.
1) L’esistenza del soggetto da trasformare in icona. Esistenza reale o presunta tale (si pensi in tal senso a figure profetiche del passato). Il signor DiegoArmandoMaradona è esistito in quanto essere umano, nato in Argentina, nel barrio di Villa Fiorito a Buenos Aires (“la bella” come direbbe il mio amico Ettore, che vide con i suoi occhi il quartiere di nascita del calciatore, certificandone in un certo senso l’esistenza). Sono noti i suoi genitori, i suoi fratelli e le sue sorelle. È noto il suo percorso da piccolo calciatore, grazie ai documenti e ai contratti conservati nelle squadre in cui ha iniziato a giocare: le “Cebollitas” dell’Argentinos Juniors e poi il Boca Juniors, prima di fare il grande salto nel calcio europeo negli anni ’80 con le squadre di Barcellona e, soprattutto, Napoli. Parliamo dunque di un essere umano esistito, che si è distinto nel gioco professionistico del calcio e di cui è dunque possibile narrarne le gesta.
2) Narrazione e auto narrazione, appunto. Il processo avviene prima per via orale, nel quartiere di nascita, tra gli amici, le famiglie dei suoi compagni di calcio, per poi iniziare a diffondersi in forma scritta grazie agli articoli e ai reportage dei giornalisti. In tale discorso, la socializzazione secondaria favorisce l’azione del narrare. Pratica quest’ultima messa in atto da sempre più persone a mano a mano che i racconti sul calciatore si diffondono nel quartiere, nella città, nel paese e oltreoceano. I giornalisti hanno un ruolo fondamentale, è chiaro. Ma nel caso specifico è presente da sempre una fortissima forma di auto narrazione: DiegoArmandoMaradona parla di sé in terza persona. Come se parlasse di un altro da sé, o meglio, di un sé non ancorato al tempo o ai beni mortali. In un’intervista dichiarava (parlando di/su sé): “A Maradona non interessano i soldi, interessa la gloria”.
3) Costruzione dell’icona: la trasformazione dell’atleta in immagine è dunque nel suo farsi. La gloria caratterizza le icone perché quest’ultime possono anche essere intese come immagini sacre. E con la crescita esponenziale del talento del giocatore, arriva la fama europea e mondiale. I due anni al Barcellona e poi, come un lupus in fabula, il trasferimento a Napoli, in un altro Sud del mondo così simile alla sua amata Buenos Aires, in cui l’esistenza quotidiana vive di passioni, teatralità, alti decibel di interazioni sociali. I Napoletani accolgono il calciatore come il salvatore, il rivoluzionario, l’unto dal dio del calcio, il re, “l’unico demone che può portarli in Paradiso” (citazione questa dal documentario Maradonapoli di Alessio Maria Federici). Qualcuno, in quel giugno 1984, dichiarava che a Napoli si sentiva che lui (“Iss”, per i napoletani, altro indizio verso la costruzione dell’icona) stava per arrivare. Proprio come si sente un evento naturale: un vento, una burrasca, la pioggia. Nessuno tira in ballo profezie, ma un po’ tutti partecipano alla trasformazione del calciatore in immagine e alla conseguente trasformazione in icona, grazie allo sbarco ufficiale nel Golfo di Partenope avvenuto nei primi di luglio del 1984.
4) A questo punto, si tratta di mettere in mostra l’icona. Di permettere a quanta più gente possibile di vederla con i propri occhi, ascoltarla, toccarla se possibile. Si tratta del processo dell’ostensione, di solito accompagnata a forme di effervescenza emozionale collettiva che hanno l’obiettivo di rafforzare l’immagine stessa. Un esempio emblematico di ciò avviene il 5 luglio del 1984, quando DiegoArmandoMaradona viene portato allo stadio napoletano San Paolo per la presentazione ufficiale. Il tutto si svolge in maniera rapida eppure lentissima. Le due auto che accompagnano, custodendola, l’icona sfrecciano a una velocità a tratti folle nel centro di Napoli in piena mattina (si vedano a tal proposito le prime immagini del recente documentario di Asif Kapadia dal titolo Diego Maradona). L’arrivo allo stadio tra due ali di folla e membri delle forze dell’ordine visibilmente emozionati. Il percorso nella pancia della struttura per arrivare nella sala della conferenza. L’inizio della stessa, con il soggetto brandizzato dal suo sponsor tecnico personale, la provocatoria domanda del giornalista francese sull’ipotetico ruolo della camorra nell’acquisto del giocatore, la risposta del Presidente del Napoli che caccia via il giornalista dalla sala con conseguenti grida di giubilo e applausi da parte dei presenti.
Potremmo dire, citando il sociologo Randall Collins, che la catena di rituali d’interazione è pienamente all’opera tramite una straripante energia emozionale collettiva. Quest’ultima trova il suo apice nei minuti seguenti, quando DiegoArmandoMaradona appare, da solo, sul prato dello stadio, circondato da una folla sognante. Sugli spalti centinaia e centinaia di spettatori che in quel torrido pomeriggio di luglio avevano pagato un biglietto per assistere a pochi minuti di presenza scenica. E per partecipare a un irrefrenabile contagio emozionale.
5) Il punto però non è la durata dell’evento in cui il calciatore si esibisce pubblicamente in qualche palleggio. Quello che conta nel nostro discorso è che, a questo punto, appaiono il corpo e la parola. Come un Cristo che esce dal Giordano, DiegoArmandoMaradona appare dal ventre del San Paolo in tutta la sua corporalità. Ecce Homo. E poiché questo ancora non basta, ecco che prende un microfono, saluta i presenti, effettua un giro di campo praticamente lanciando una sorta di benedizione a tutti coloro che sono venuti ad acclamarlo. Corpo e parole. L’icona è stata mostrata, con conseguenti intense forme di sentire emotivo diffuse quali svenimenti e, addirittura, inizi di infarto. Una sindrome di Stendhal traslata al pallone, poiché sempre di arte si tratta.
6) Mitologia. I sette anni napoletani illuminano l’icona, intesa come immagine. Arrivano due scudetti, con infinite sfilate per strada in tutto il territorio circumvesuviano tese a celebrarla (io stesso, con mio padre e mio zio ho contribuito alla cerimonia partecipando alle sfilate collettive e alla messa in comune di emozioni intense e condivise). Arrivano i successi campionati mondiali, in particolare quello della Coppa del mondo di Messico 1986, dove DiegoArmandoMaradona è profeta e attore protagonista. In quelle settimane si compie ancora una volta la trasformazione del soggetto corporale in immagine, dell’essere umano in simbolo, del calciatore in semi divinità. Il suo goal di mano all’Inghilterra, nel racconto del protagonista, diventa la mano de Dios: sarebbe stata la giustizia divina a punire gli Inglesi colpevoli di imperialismo nel conflitto delle Falkland/Malvinas. La sua seconda marcatura in quella partita diventa, per la stampa mondiale, il goal del secolo. La vittoria in finale contro la Germania fa entrare DiegoArmandoMaradona nell’ambito della divinità. Alcuni elementi a conferma di ciò:
‒ a Napoli, appare un’edicola votiva in via San Biagio dei Librai con tanto di teca contenente un capello del calciatore, ossia una reliquia;
‒ durante un’analisi del sangue di routine, un’infermiera prende una fiala contenente il sangue della divinità calcistica e la porta nella chiesa di San Gennaro;
‒ un murales gigante sancisce l’equiparazione del calciatore al santo partenopeo per eccellenza. (Equiparazione che poi penderà a favore dell’argentino, poiché oggi in città si registrano due murales giganti dedicati al Pibe e soltanto uno a San Gennaro). Come dichiarato da un anziano tifoso napoletano: “Di Maradona non si può parlare male perché è come se si parlasse male di Dio. E Dio sta sopra a tutto”.
7) Con la fine dell’attività professionistica e il trascorrere degli anni tra numerosi problemi fisici e tante attività in giro per il mondo, ecco che arriva la necessità di lavorare sulla memoria custodita e sulla memoria costruita. In Argentina nasce la Iglesia Maradoniana, corrente religiosa fondata da due giornalisti con tanto di sacramenti, festività e comandamenti che considera l’essere mortale una divinità in terra (ancora un richiamo al Cristo: vero uomo e vero Dio). E, a supporto della costruzione dell’icona, anche il tetragramma D10S. DiegoArmandoMaradona entra nelle case della gente, questa volta di fianco ai santi e ai defunti (sul punto, la sua statuetta è da sempre presente nelle vetrine degli artigiani dei presepi in via San Gregorio Armeno a Napoli. Da ieri sera, appare con le ali sulla schiena).
L’icona è costruita, tutto sta nel custodirne ricordi e generarne di nuovi. Appaiono così canzoni (dalla planetaria “Ho visto Maradona” alla “Si yo fuera Maradona” di Manu Chao), libri, film e documentari, svariate citazioni (memorabile quella di Paolo Sorrentino durante la premiazione alla serata degli Oscar per il suo La grande bellezza), oggetti, capi di abbigliamento e tante altre “cose”: ossia custodie di affetti e simboli che, pur non comprendendone pienamente il senso, possono donare calore e conforto all’esistenza, così da ossigenare una quotidianità a volte asfittica.
Ricordo il mio amato zio quando negli anni Ottanta mi portava a vedere le partite del Napoli a Fuorigrotta. E poi, una volta tornati a casa, mi mostrava le foto di lui in posa con il Pibe, incorniciate nella sala da pranzo, con un orgoglio misto ad ammirazione. Baciava con gli occhi la foto di DiegoArmandoMaradona. Proprio come si fa con un compagno di viaggio.
Proprio come si fa con una icona.