1. Esaurimento e umiliazione
Confesso che negli ultimi tempi mi sento in imbarazzo se devo rivolgermi a persone più giovani. Ho come l’impressione che le cose che io ho da dire per loro siano esasperanti. Mi dico che è forse una questione di invecchiamento: ho settant’anni, e probabilmente la mia percezione del futuro è legata a questo. Poi però, ho un secondo pensiero: l’invecchiamento non è soltanto un problema personale, perché un terzo della popolazione del nord del mondo ha più di sessantacinque anni. Questa annotazione di tipo demografico – che si salda paradossalmente con una persistente esplosione demografica nel sud del mondo, particolarmente nel mondo indù, nel mondo islamico e dell’Africa – questa duplicità di prospettive ci porta a quella che Donna Haraway, nel suo ultimo libro, definisce “inevitabilità dell’estinzione”. Un libro strabiliante, anche se enigmatico: l’estinzione è considerata nell’ordine dell’inevitabile per il fatto che, mentre il pianeta si va restringendo – il livello del mare si innalza, le coste dovranno essere abbandonate, entro il 2050 seicento milioni di persone dovranno abbandonare il posto nel quale vivono per spostarsi verso territori più vivibili –, allo stesso tempo la popolazione globale aumenta. In tal senso, dice la Haraway, non c’è possibilità di sopravvivenza della razza umana. Altri autori, come Carlo Rovelli ad esempio, sostengono che non dovremmo drammatizzare questa faccenda dell’estinzione. Ma il punto è che questo tema entra per la prima volta nella storia, nell’ordine del probabile. Nelle strade, nelle piazze, nelle scuole di tutto il paese e di tutto il mondo, c’è un movimento nuovo che a me viene da chiamare “la crociata dei bambini”, che sanno di essere stati convocati sulla faccia della terra irresponsabilmente, dal momento che per loro è molto improbabile prevedere il futuro della vita umana.
Questo è il quadro che mi viene alla mente pensando al futuro probabile: elementi come l’invecchiamento, l’estinzione e la catastrofe si saldano in un discorso che non sembra lasciare via d’uscita.
Provo a spostare un poco l’ottica e a prendere questo discorso da un altro punto di vista, quello dell’esaurimento.
Cosa c’è all’origine dello sgretolamento contemporaneo? Un economista di nome Lawrence Summers parla da un po’ di tempo di «stagnazione secolare». La sua tesi è che abbiamo una serie di motivi – legati allo sviluppo tecnologico, alla saturazione dei mercati, alle crescenti disuguaglianze e così via – per cui la crescita avrebbe raggiunto un limite che non è superabile: secondo lui «La crescita è finita». Summers non dice nella sua analisi (è un economista e non gli interessa molto quello che è al di fuori dall’economia) che la crescita è finita essenzialmente perché sono finite le due risorse fondamentali che il capitalismo ha devastato negli ultimi trent’anni. La prima è quella fisica: l’acqua, l’aria respirabile e una serie di altre cose materiali che si vanno estinguendo. La seconda, più grave, è l’esaurimento delle risorse nervose, psichiche, mentali, cognitive del genere umano, per effetto del super sfruttamento delle tecnologie digitali e del bombardamento sistematico dell’attenzione cui esse hanno sottoposto la mente umana negli ultimi decenni, da un lato, e dall’altro per quella che un filosofo coreano-tedesco, che si chiama Byung-Chul Han, chiama la “tempesta di merda” («shitstorm»), vale a dire la moltiplicazione delle fonti di rumore informativo che ha reso inoperante la facoltà selettiva, quella che la filosofia moderna da Kant in poi definisce critica. La scomparsa non tanto del pensiero critico, ma della mente critica, è uno dei fenomeni determinanti della nostra epoca: la mente umana è in grado di elaborare un’informazione quando l’informazione viene presentata con un ritmo elaborabile, che è quello della comunicazione alfabetica. La critica si accompagna strutturalmente alla comunicazione alfabetica. Quando dalla sfera della comunicazione alfabetica entriamo nella sfera della comunicazione elettronica, la capacità della mente di elaborare nel tempo i dati, e di distinguere vero o falso di fronte ad ogni enunciato, tende a dissolversi. Così assistiamo ad un fenomeno che ci appare come sconvolgente, cioè la decisione della maggioranza di elettori occidentali, ad esempio, di puntare le loro attese di futuro su delle persone evidentemente poco equilibrate o moralmente intollerabili.
In una condizione che è quella della stagnazione secolare – l’impossibilità di rilanciare la crescita –, il capitalismo, incapace di ragionare in termini che non siano quelli dell’accumulazione e della crescita economica, ha messo in moto dagli anni ’80 in poi, una dinamica fondata sulla predazione, sulla distruzione di ciò che è stato prodotto. Negli ultimi trent’anni questo ha reso ancora possibile l’accumulazione di capitale: non più estrazione di plus-valore dalla produzione di beni utili, ma l’estrazione di minus-valore dalla distruzione di beni che sono stati creati nel passato, o che vengono quotidianamente creati, e che nottetempo vengono distrutti. Distruggo una scuola e questo mi permette di aumentare il capitale di cui dispongo, distruggo un ospedale e questo mi permette di accumulare ulteriormente capitale e così via. L’estrattivismo contemporaneo – la persistenza di una devastazione delle risorse ambientali – non ha più carattere espansivo, ma essenzialmente distruttivo. Ecco, negli ultimi anni noi abbiamo assistito al mutamento profondo entro cui questo quadro si verifica. La crescita diventa impossibile, il capitalismo è incapace di ragionare in termini di frugalità e di redistribuzione dei beni, le diseguaglianze continuano e noi ci chiediamo perché accumulare capitali così grandi.
Su questo, mi piace raccontare un aneddoto. Il giornalista americano Douglas Rushkoff, molto noto negli anni ’90 perché si occupava di nuove tecnologie, viene invitato a Londra a tenere una conferenza e gli offrono un compenso molto più alto di quello che riceve di solito; lui accetta, ma arrivato sul posto si accorge che le persone che lo stavano ascoltando erano solamente sei e avevano domande molto precise. Essenzialmente la loro domanda era: «tu che ne sai tanto di nuove tecnologie, puoi dirci come sopravvivremo noi e le nostre famiglie alla catastrofe ambientale, come si può sopravvivere all’estinzione?». Questa è la domanda dei sei super-paganti. Io credo che nell’inconscio contemporaneo si stia diffondendo la percezione del fatto che la salvezza non è più possibile per l’umanità. Ma per me e per la mia famiglia deve esserlo.
Così comprendiamo cosa è successo dopo il 2015 (anche se non vogliono dire molto, a me piace indicare le date perché segnano delle soglie simboliche). Il 2015 per me è l’anno dell’umiliazione: il popolo greco vota con il 62% di non rispettare l’imposizione finanziaria della troika europea; tre giorni dopo il voto, Alexis Tsipras è costretto ad accettare l’umiliazione finale a Bruxelles. Si toglie la giacca, la lancia sul tavolo dicendo: “Volete anche questa? Cedo su tutto!”. Così l’economia greca è stata totalmente devastata: gli aeroporti greci sono di proprietà tedesca, l’elettricità greca è di proprietà italiana e tedesca, il Pireo e gli altri porti sono di proprietà cinese, 480.000 giovani in un paese di 11 milioni di abitanti hanno abbandonato la Grecia per andare a lavorare (o a non lavorare) da qualche altra parte. Nell’estate in cui la parola “democrazia” viene cancellata nel luogo in cui venticinque secoli fa era stata pronunciata per la prima volta, la popolazione del mondo – certamente quella d’Europa – si rende conto che la politica non è più in grado, che la democrazia non significa più molto.
2. Impotenza e vendetta
E dunque, che cosa accade nella mente delle persone? Accadono due cose: uno, devo salvarmi io e la mia famiglia; due, quello che desidero è la vendetta.
Dal 2016 in poi, con la Brexit prima, e con la vittoria di Trump a presidente degli Stati Uniti d’America poi – ma potremmo continuare citandone tanti, Salvini, Orban, Kaczynski, Boris Johnson e Bolsonaro – Hitler è ricomparso sulla scena del mondo, solo che si è moltiplicato per dodici, per quindici, e inoltre dispone della bomba nucleare in molti di questi luoghi.
Si è andata diffondendo una tensione diffusa alla vendetta. Qualcuno pensa: «Ma come fanno questi che votano per Trump a non rendersi conto del fatto che la politica ambientale del loro presidente – per citarne un aspetto soltanto – rischia di distruggere tutto? Non lo sanno, non ci credono?». Da un’indagine fatta da giornalisti americani, la maggioranza degli elettori di Trump dice che è evidente che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, ma che non c’è più niente da fare. Quindi l’unica cosa che posso fare è votare per uno disposto ad ammazzare tutti coloro che possono mettere in pericolo la loro sopravvivenza. Allora è la mia America, quella bianca, e siamo noi che dobbiamo sopravvivere. È dunque una logica di vendetta da disperazione che conduce a questa emergenza che possiamo chiamare in tante maniere – che io chiamo “trumpista” –, che ha elementi evidenti di etnonazionalismo, cioè nazionalismo motivato su una base essenzialmente etnica.
Anche Günther Anders lo dice all’inizio del suo libro più noto, «L’uomo è antiquato». Anders parla dell’umiliazione, dice che quando la tecnica diventa capace di eliminare il genere umano – si riferiva ad Hiroshima, ad Auschwitz –, allora impera la vendetta. Anders era ebreo, il suo vero nome era Stern, ma lui ha detto: «Mi chiamo altrimenti, in un’altra maniera: Anders». In quella scelta del nome c’era un rifiuto dell’identitarismo, che purtroppo ha sottomesso larga parte del popolo ebraico, un rifiuto dell’escalation di cui parlo. Impotenza e vendetta.
In questi ultimissimi anni mi pare che stiamo passando alla fase successiva: le proteste, quello che sta succedendo in Italia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, mi pare segnalino l’inizio di una riscossa del fronte liberaldemocratico. Penso anche a quanto è successo a partire dalla fine della primavera del 2020 a seguito dell’ennesima uccisione di un uomo afro-americano da parte della polizia: l’insurrezione dei giovani americani che finora si è manifestata come protesta antirazzista – e che si è diffusa anche in tanti altri Paesi – potrebbe essere l’annuncio di una mobilitazione più ampia, più profonda contro le nuove forme di schiavismo. Ma la liberal democrazia mi pare fuori dalle possibilità della storia. La battaglia che hanno iniziato Nancy Pelosi in America o il governo cosiddetto giallo-rosso in Italia o Corbyn in Inghilterra, cioè la battaglia per sconfiggere i fascisti in questi paesi, mi pare una battaglia destinata a non potercela fare. E tutto ciò accade mentre la pandemia ha scatenato un effetto panico-depressivo che scardina la possibilità stessa della vita sociale, della normalità economica. Ma non immaginavo quale evoluzione avrebbe avuto la soggettività sociale. E questo è decisivo, perché se è vero che il capitalismo è disintegrato l’emergere di forme nuove richiede un’evoluzione solidale della soggettività.
3. La crociata dei bambini e dei lavoratori cognitivi
E dunque, verso dove guardare?
Mi pare che, contemporaneamente a quanto detto, succeda un’altra cosa, anzi altre due cose.
Un primo elemento di interesse è il fatto che l’inconscio collettivo di una nuovissima generazione, quella che io chiamo la “crociata dei bambini”, crea una sensibilità che non si era mai vista prima, la sensibilità di essere di fronte alla prospettiva dell’estinzione e quindi la consapevolezza di radicalità delle scelte che si debbono compiere. Ho seguito con estrema attenzione questa sedicenne svedese che da un po’ di tempo dice cose interessanti. All’inizio ero sospettoso, mi dicevo «ma questa ragazzina non ha ancora pronunciato la parola capitalismo…». E invece no. Se voi ascoltate il discorso straordinario che ha fatto all’Onu, vedete che a un certo punto lei dice: «Come osate, la gente sta morendo, la gente sta soffrendo e voi siete capaci soltanto di parlare di soldi (fin qui forse è moralistico) e… di crescita illimitata». Ecco, questo è il punto che questo movimento è in grado di cogliere e sviluppare. E questa è una prima cosa: si sta predisponendo un movimento “infantile”, un movimento, sì, perché il movimento vuole proprio lo spostamento della percezione, della visione, delle aspettative. Non contano più le ideologie, non conta ciò in cui tu credi, conta moltissimo ciò che ti aspetti qui, conta moltissimo l’aspettativa del mondo che si sta formando all’interno della mente della gente.
Il secondo elemento è il mondo della ricerca: ci sono 100 milioni di lavoratori cognitivi nel mondo, 100 milioni di persone che dagli anni ’90 a oggi hanno avviato e costruito, bit dopo bit, l’automa cognitivo che al momento sta prendendo il potere in maniera totalitaria e distruttiva. Ma questi 100 milioni di lavoratori cognitivi – sparpagliati nei centri di ricerca, nei laboratori di sperimentazione, nelle università, negli ospedali – possono ad un certo punto, e probabilmente per contatto con la crociata dei bambini, rendersi conto che loro posseggono la potenza per smantellare la macchina che loro stessi sono stati costretti a costruire. Soltanto costoro posseggono questa possibilità; in tal senso, io non mi interesso tanto ai discorsi sulla democrazia, quanto a quelli sulla auto-organizzazione del lavoro e, particolarmente, del lavoro cognitivo.
Ancora, un aneddoto. L’anno scorso, Google, la più grande azienda di tutti tempi, stava firmando un contratto con il Pentagono per la creazione di intelligenza artificiale, droni da combattimento, ma una ricercatrice, un ingegnere di origine cinese che lavora all’interno di Google, molto capace, molto nota e ascoltata, ha scritto una lettera ai suoi colleghi dicendo: «Io mi dimetto se Google firma il contratto con il Pentagono». Quattromila suoi colleghi hanno firmato quella lettera. Badate, sono pochi, perché 4000 persone sono il 5% dei lavoratori di Google nel mondo; però, quei 4000 hanno spaventato la direzione di Google che ha ritirato la decisione di firmare il contratto con il Pentagono. Qualcuno potrebbe dire: «sì, va bene, ma ci sarà qualcun altro che prepara le intelligenze artificiali». Lo so, ma quanto è avvenuto è importante.
Eppure se la democrazia è un feticcio vuoto, la politica uno strumento spuntato, occorre aprire orizzonti culturali, estetici, psichici, poetici che permettano di immaginare una via d’uscita. É al contatto tra immaginari emergenti e forme di auto-organizzazione del lavoro che dobbiamo interessarci, è lì che dobbiamo spostare la nostra attenzione e lo sforzo della ricerca, perché è lì che sta la possibilità.