Lacan & Derrida

È sempre un io che dice ‘noi’. Sono sempre ‘io’ che dico – invoco, anticipo, ordino – un noi. Sono sempre io che, evocando un altro a sua insaputa – dandolo per momentaneamente o definitivamente assente, cioè morto, oppure incompetente a dir la sua sulla comunità di cui lo obbligo a far parte, o comunque arrivato troppo tardi per fare anche la più piccola obiezione –, enuncio e per ciò stesso – nulla essendo più performativo dell’io che è noi e del noi che è io – rendo effettivo, qui e ora, un noi che, se dovesse risultare dall’assenso simultaneo e simmetrico di me e dell’altro, si rivelerebbe impossibile e come l’hegeliana lotta delle autocoscienze per il riconoscimento, privata del passaggio nella servitù, si concluderebbe con la morte di entrambi.

Perché vi sia comunità, anche la comunità minima rappresentata dalla coppia, dall’io e dall’altro, da me e te, è necessaria la sopravvivenza, è necessario che uno sopravviva all’altro e che da questo spazio della sopravvivenza si rivolga all’altro, lo invochi e prenda il coraggio, o abbia l’arroganza, di dire ‘noi’. ‘Noi ci siamo amati’, per esempio.

Noi, quindi, la possibilità di dire noi, la sua stessa esistenza, presuppongono la morte dell’altro, ne dipendono e di conseguenza la esigono. Da qui il dolore e la vergogna connessi al prender la parola: si parla infatti sempre al posto di un altro e in suo nome, si parla e si dice noi sempre a partire dalla morte dell’altro, vale a dire da un altro morto, da questo morto qui, una volta in carne e ossa, da quest’altro morto talmente determinato e singolare da averlo anche potuto odiare mentre era in vita, con il quale ci si è anche potuti scontrare duramente, essersene dette di tutti i colori, ma che proprio per questo, ora che è morto, si scopre di aver amato e di aver fatto con lui comunità, di essere stati con lui come in un noi, ora che si scopre che per il solo fatto di essergli sopravvissuti si è divenuti, senza volerlo o in verità avendolo voluto da sempre, la sua sopravvivenza, il suo modo di continuare a morire senza morire che è quanto intendiamo quando diciamo che qualcuno o qualcosa sopravvive.

Ad evocare questa scena della sopravvivenza – no, non ad evocare, piuttosto a collocarvisi, a prendervi dimora, a sprofondarvi quasi – che, come si sarà capito, è anche la scena primaria di ogni dialogo, di ogni possibilità di dire io, di invocare un tu e in tal modo di enunciare un noi, è stato Jacques Derrida la seconda volta in cui si è trovato chiamato – accettando l’invito, rispondendo sì, dicendo ‘eccomi’ – a ricostruire il suo rapporto con Lacan. Con l’avvertenza però che ogni volta che ci si trovi a interrogarsi sui rapporti di un autore con un altro – Derrida con Lacan, Lacan con Derrida, ma anche quelli fra due perfetti sconosciuti –, ogni volta che si tematizzi il regime degli scambi, dei debiti e dei crediti, delle influenze più o meno reciproche, dei tradimenti e delle incomprensioni, che si stabilisce fra l’uno e l’altro, l’accento cada, più che sui termini della relazione, su ciò che fonda la relazione stessa, vale a dire sul ‘cum’, sul ‘con’, sull’‘avec’, sul loro senso proprio e su quello derivato, ossia sulla deriva del loro senso proprio. Giacché, come nota Derrida, «“con” vuol dire anche “presso” (apud, avuec, apud hoc, categoria dell’invitato o dell’intruso, dell’ospite e del parassita… che abusa sempre dal momento in cui dice “noi”)». Il supplemento di senso, per cui il ‘con’ slitta nella vicinanza, nell’essere presso, contamina come un virus l’apparente purezza del rapporto, l’aspetto trasparente e paritario che si assegna allo star l’uno con l’altro, e declinando i termini della relazione secondo le figure dell’ospite e dell’invitato inevitabilmente fa apparire i loro inversi simmetrici, l’intruso e il parassita. L’altro, insomma, che io costringo a star con me dicendo ‘noi’, mi si avvicina come un alter-ego familiare o come qualcuno di inassimilabile, come un ospite gradito o come un parassita insopportabile?

Senza dire, d’altronde, che la relazione è reversibile: non sarò forse io che, dicendo ‘noi’, gettando, come fosse un ponte, un ‘con’ fra me e l’altro, mi intrufolo presso di lui, entro di prepotenza nelle sue proprietà, rubandogli i pensieri, cibandomi, seduto alla sua tavola, di ‘cervella fresche’? Non sono io che parassito l’altro? E chi dunque è l’ospite attivo e chi quello passivo, chi il padrone di casa e chi l’intruso, chi quello che produce e chi quello che si nutre a sbafo? Chi, insomma, è in debito con chi? Tra gli effetti di questa assiomatica del ‘con’ che trapassa surrettiziamente nella confusione dei ruoli e nella migrazione clandestina dei pensieri andrebbe annoverato anche il caso dell’inversione delle posizioni, di ciò che si designa abitualmente facendo ricorso alla figura retorico-anatomica del chiasmo. Non è quindi un caso che per offrire un contributo alla ricostruzione del suo rapporto con Lacan, Derrida raggruppi l’intero materiale sotto tre rubriche che dovrebbero fungere da guida per uno storico futuro, lo classifichi cioè in base a tre protocolli il primo dei quali è appunto denominato “il chiasmo”.

Altra declinazione – o degenerazione – del ‘con’, il chiasmo sarebbe la forma che negli anni sessanta ha assunto l’incontro-scontro fra Derrida e Lacan. Ma non tanto e non solo come figura del rapporto diretto fra di loro, quanto come modo, stile e atteggiamento, con cui ciascuno si rapportava al campo della filosofia. Né vale stupirsi per questa scelta di Derrida: l’occasione di questa ricostruzione non è forse un convegno dedicato interamente al rapporto di Lacan con la filosofia? Al modo cioè massiccio e disinvolto, soprattutto se paragonato con quello di Freud guardingo e sospettoso, con cui Lacan ha saccheggiato la cassetta degli attrezzi filosofica, usando a piene mani autori e testi, categorie e concetti, propriamente filosofici, al fine o di fondare, o più modestamente di illustrare, le tesi più azzardate e irricevibili della psicanalisi freudiana, o addirittura iscrivendo quest’ultima direttamente dentro il campo della filosofia come quando sostiene che il soggetto di cui si fa uso in analisi altro non è che quello cartesiano?

E tuttavia quest’uso libero da parte di Lacan della filosofia non spiegherebbe ancora il perché di un rapporto – di Derrida con Lacan – né della forma specifica che assume (beninteso nella ricostruzione del sopravvissuto), e cioè la forma chiastica. Che cosa è accaduto per cui non solo un rapporto si costituisce, ma prende in sovrappiù l’aspetto chiastico? È accaduto, racconta Derrida, che

nel momento in cui un certo numero di filosofemi maggiori o dominanti, organizzati in ciò che proposi di chiamare in quel momento il fonocentrismo e/o il fallogocentrismo, richiesero una interrogazione che per brevità chiamiamo ‘decostruttiva’ (interrogazione che molto evidentemente, per definizione, era insieme filosofica ed eccentrica, ec-centrante in rapporto al filosofico come tale, dando a pensare il filosofico a partire da un luogo che non poteva più essere semplicemente filosofico o contro-filosofico, dentro o fuori della filosofia), in quello stesso momento, esattamente nello stesso momento, si poteva assistere ad una rilegatura teorica del discorso lacaniano che faceva l’uso più forte, il più potentemente spattacolare di tutti i motivi a miei occhi decostruibili, in corso di decostruzione; e, cosa che per me era ancora più grave, non solo di ciò che della filosofia era il più decostruibile (il fonocentrismo, il logocentrismo, il fallocentrismo, la parola piena come verità, il trascendentalismo del significante, il ritorno circolare della riappropriazione verso il più proprio del luogo proprio ai bordi circoscritti della mancanza ecc., in una gestione della referenza filosofica la cui forma almeno era, nel migliore dei casi, ellittica e aforistica, nel peggiore dogmatica – ci torno fra un istante), non solo quindi del più decostruibile ma anche di ciò che attraversando e debordando la filosofia o l’onto-teologia (intendo il discorso heideggeriano), mi sembrava già – e questo risale al 1965 – richiedere a sua volta delle domande decostruttive.

Ecco il chiasmo! Come un’immagine allo specchio è del tutto simile all’oggetto che riflette eccetto il capovolgimento delle direzioni – ciò che nella ‘realtà’ è la destra, nell’immagine diventa la sinistra –, così due posizioni intellettuali sostanzialmente uguali realizzano però la loro somiglianza in una forma invertita. Se il ricorso all’immagine speculare come paradigma del chiasmo è corretta (ma allora l’intero rapporto “Derrida con Lacan” sarebbe leggibile, se non del tutto, almeno in parte, secondo il modello di un concetto lacaniano fondamentale, e cioè quello dello stadio dello specchio, e si sussumerebbe quindi sotto il registro immaginario, ossia quello della lotta a morte e dell’identificazione alienante), allora quel “nello stesso momento”, quel “esattamente nello stesso momento” su cui Derrida mette l’accento a controprova del carattere chiastico del suo “essere con” Lacan, non indicherebbe una semplice determinazione temporale, ma ben di più una vera e propria temperie culturale, una serie di trasformazioni teoriche e non solo, riguardanti lo stato degli archivi, le modalità della trasmissione, gli statuti delle scienze e gli effetti devastanti di nuove pratiche discorsive fra cui la psicoanalisi, che investono, determinandone la crisi e la messa in discussione, il ruolo e il destino della filosofia.

In altri termini: il problema cui rispondono i dispositivi teorici di Derrida e Lacan è lo stesso. Per quest’ultimo si tratta di capire come cambia e quanto tutto l’assetto della cultura occidentale, comprese la scienza e la filosofia, dopo l’avvento della scoperta freudiana, che diventa in altri termini la ragione dopo Freud; per il primo di portare a compimento quel lavoro di decostruzione della filosofia occidentale centrata sul primato del logos e della voce, già iniziato sia all’interno stesso della tradizione filosofica – Husserl, Heidegger, ma soprattutto Nietzsche – sia all’esterno – trasformazione dei modi dell’archiviazione del sapere, pratiche letterarie innovative, nuove scienze fra cui la psicoanalisi e soprattutto centralità e emancipazione della scrittura.

Ed è forse per questo che quando parla di Lacan la tonalità dell’enunciazione di Derrida si colora spesso degli accenti del tradimento e della delusione, del tradimento di fronte al recupero della tradizione filosofica e della delusione per il misconoscimento del proprio lavoro di decostruzione; senza contare poi che quegli accenti tanto più rischiano di slittare nel risentimento quanto più le repliche di Lacan oscillano fra gli estremi dell’ironia piccata e della interpretazione selvaggia. Se per esempio il tono di Derrida si fa un po’ greve nel momento in cui l’accusa rivolta a Lacan da semplice rimprovero di eccessiva confidenza con «i filosofi e con Heidegger» si tramuta in stigmatizzazione di un incontrollata ambizione accademica, egualmente bisogna riconoscere che l’altra metà della strana coppia, da parte sua, c’era andato giù pesante: un anno dopo il loro primo incontro avvenuto nel 1966 a Baltimora – in terra straniera, neutrale, forse mortale, in cui tutti e due si erano sentiti trattati come «dei prodotti avariati buoni per l’esportazione» –, Derrida e Lacan si rivedono a Parigi durante una cena cui sono entrambi invitati. Secondo la ricostruzione di Elisabeth Roudinesco (la cui unica fonte però è Derrida stesso) Derrida, per sciogliere il ghiaccio, racconta a Lacan un episodio riguardante suo figlio Pierre: mentre si sta addormentando in presenza dei genitori il bambino domanda a Derrida perché lo stia guardando. Alla risposta di quest’ultimo che lo fa perché è bello, il bambino replica che questo complimento lo spinge ad aver voglia di morire. Inquieto Derrida chiede perché e il bambino risponde di non amarsi e di non amarsi da quando parla. Allora Marguerite, la moglie di Derrida, prende in braccio il figlio e cerca di tranquillizzarlo assicurandolo del fatto che i genitori lo amano. Al che Pierre replica ridendo: «No, non è vero, io sono un imbroglione incallito». Al momento Lacan non reagisce. Ma un anno dopo in occasione della conferenza sulla Svista del soggetto supposto sapere pronunciata all’Istituto francese di Napoli, Lacan cita inopinatamente e senza indicare la fonte l’aneddoto: «“Sono un imbroglione incallito” dice un marmocchio di quattro anni raggomitolandosi fra le braccia della genitrice, davanti al padre che gli ha appena risposto: “Sei bello” alla domanda: “Perché mi guardi?” E il padre non ci riconosce (anche per il fatto che il bambino nell’intervallo gli ha fatto la finta di aver perso il gusto di sé dal giorno in cui ha parlato) l’impasse che egli stesso tenta sull’Altro giocando al morto. Sta nel padre che me lo ha detto intendermi o no a questo proposito». Che cosa voleva intendere Lacan con il suo solito stile allusivo e indiretto? Forse il fatto che, comunicandogli il comportamento del figlio mentre restava cieco alla trappola che vi era iscritta – vincere con poche carte in mano e di valore scarso tutte le prese dell’amore paterno e materno –, Derrida ne tendeva una proprio a Lacan – procurarsi un’interpretazione a buon mercato o addirittura offrirsi surrettiziamente come il suo prossimo analizzante.

Confermerebbe questa interpretazione un episodio successivo che Derrida definisce «una imprudenza compulsiva» da parte di Lacan nei suoi confronti: in occasione della pubblicazione del libro di Nicholas Abraham e Maria Torok Il verbario dell’uomo dei lupi prefato da un saggio di Derrida, durante una seduta del seminario del 1976-77 L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre, Lacan avrebbe detto, salvo poi a cassare la frase dall’edizione a stampa sulla rivista “Ornicar”, che Derrida era in analisi. L’affermazione, che aveva provocato le risate dell’uditorio, era stata pronunciata dopo che Lacan aveva definito il testo di Derrida Fors un «estremo nel genere delirio».

Al di là di ogni altra considerazione e dando il giusto peso alla reazione di Derrida all’uso poco elegante della confidenza familiare fatto da Lacan – «Ancora oggi non sono certo di aver ben capito l’interpretazione azzardata in quella che fu, non dimentichiamocelo, una pubblicazione firmata in Scilicet (dove Lacan era il solo che si autorizzava a firmare), ma mi sono sempre chiesto se facendo di me il padre, in questa storia, chiamandomi “il padre”, non intendesse il figlio; mi sono sempre chiesto se non volesse dire il figlio, se non volesse fare il figlio, suo o mio, fare di me il figlio che tenta l’impasse sull’Altro facendo la parte del morto, come dice, o farsi egli stesso figlio» –, si potrebbe concludere notando come la figura a chiasmo che Lacan e Derrida formano nel momento in cui stanno l’uno con l’altro assuma con il tempo – ma forse era tale dall’inizio – l’aspetto di un rapporto anch’esso simmetrico ed inverso quale quello di un padre con un figlio. Con l’avvertenza o l’aggiunta tuttavia che in questo caso – ma vale forse in ogni caso – resti incerta, se non indecidibile, l’attribuzione dei ruoli e delle prerogative: chi, in altri termini, è il padre e chi il figlio, chi è il padre di chi? Chi soprattutto è il vero figlio di Freud, il padre della psicoanalisi, e quindi il suo legittimo erede, abilitato a darne l’interpretazione corretta e a proteggerlo dai travisamenti e dalle sviste? Se Derrida è in analisi, se si fa imbrogliare dal figlio, non è un buon padre, e nemmeno un buon figlio; d’altro canto se anche Lacan è un figlio, se viene come tutti dopo Freud, che cosa impedisce che debba qualcosa anche ad un padre putativo come Derrida? Insomma, di chi è la primogenitura, chi viene prima e chi per primo pone la scrittura al primo posto? Che vuol dire anche: chi per primo fra di loro destituisce il logos, il logos come padre e il padre del logos, il padre primordiale?

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