Leggere i capitoli di La verità in pittura è come ripetere ogni volta il gesto con cui Lucio Fontana tagliava la tela, anche se in questo caso, a essere trafitto, è il tessuto ontologico, logocentrico e presenziale dell’immagine, mentre il fendente non è altro che la traccia. Modulata sul piano iconico, la traccia si configura infatti come il movimento differenziale dell’immagine, che scardina le giunture di ogni dicotomia possibile, ma anche di qualsiasi appropriazione: ontoteologica, mercantile, estetica, politica, simbolica. Così la traccia derridiana s’immerge nel mondo pittorico, in tutto quello che ne fa parte e soprattutto in ciò che spartisce, con il fine di scuotere ogni tipo di pre-determinazione concettuale intenta a definire quello che dovrebbe essere l’immagine-messa-in-opera.
Mediante continui slittamenti semantici, come un passe-partout, superato il parergon kantiano, la traccia passa attraverso cornici, orli, bordi, lemmi, filtri, cartigli, cesure, firme, la vita e la morte, per poi infilarsi nelle scarpe dipinte da van Gogh. Per finire, o per proseguire, appunto, in pittura.
La verità in pittura
La verità in pittura è firmata Cézanne. È il motto di Cézanne. Apparendo nel titolo di un libro, l’espressione suona come qualcosa di dovuto.
Per restituirlo quindi a Cézanne, e prima di tutto a Damisch che lo cita prima di me, riconosco il mio debito. Io lo devo. Perché il tratto venga restituito a chi di diritto.
Ma la verità in pittura era già dovuta.
Lo stesso Cézanne aveva promesso di sdebitarsi: «IO VI DEVO LA VERITÀ IN PITTURA, E VE LA DIRÒ» (Lettera a Emile Bernard, 23 ottobre 1905). Strano enunciato. Chi parla, qui, è un pittore. Egli parla, o piuttosto scrive, perché si tratta di una lettera, e questa battuta, questo «bon mot» è più facile scriverlo che dirlo. Scrive con un linguaggio che non chiarisce nulla. Non dà a vedere nulla, non descrive nulla, e ancora meno rappresenta. La frase non opera affatto nel modo della constatazione, non dice nulla che esista al di fuori dell’evento che costituisce, ma impegna chi firma in un enunciato che i teorici degli speech acts chiamerebbero «performativo», più precisamente di quella specie di performativo che essi chiamano «promessa». Uso, per il momento, questi termini come utili approssimazioni, come titoli di problemi, senza sapere se esistano o meno enunciati «constativi» e «performativi» puri.
Che cosa fa Cézanne? Scrive quello che potrebbe dire, ma con un’espressione che non asserisce nulla. Lo stesso «Io vi devo», che potrebbe comportare un riferimento descrittivo (io dico, so, vedo, che vi devo), è legato al riconoscimento di un debito che impegna tanto quanto descrive: l’espressione sottoscrive.