E se fossimo noi i mezzi di comunicazione? Se fossero gli umani i primi media? Questa è l’ipotesi che fa da sfondo ai saggi de La somiglianza: un trattato sulla comunicazione che ha nell’incomunicabilità il suo centro propulsore. Pierre Klossowski vi medita sui suoi romanzi e i suoi quadri, analizzando le diverse forme di comunicazione con cui si è cimentato: dalla pittura alla scrittura, dal dialogo alla conversazione muta, dall’idioma corporale alla divinazione, dal cinema alla magia. Ma la lezione de La somiglianza è, anzitutto, la lezione dell’immagine. Per natura private, in quanto indiscernibili dal fantasma che fa di noi dei casi singolari, le immagini assicurano la comunicazione autentica: lo scambio dei corpi attraverso il linguaggio segreto dei segni corporali. Ognuna può impadronirsi di tutti pur non essendo di nessuno. L’immagine fa qualcuno, ma qualcuno che – anche quando è solo, silenzioso – è parlato e pensato da un fuori non dominabile. Per Klossowski non abbiamo immagini, siamo immagini: simulacri degli impulsi che abitano l’anima disputandosene voce e fisionomia. La lezione dell’immagine, infatti, è l’ospitalità: un modello pagano di comunicazione la cui pratica richiede un’energia così soffusa da differire la morte con un Eros primitivo, ma non spontaneo. Klossowski, in queste pagine, ce ne fa un dono non restituibile, privo di contropartita. L’ospitalità non è la reciprocità. L’ospitalità è la somiglianza: la comunione del non comune che ci commuove.
I maestri del Nudo tradizionale – del Nudo in quanto soggetto distinto dal Nudo fortuito – hanno rispettato, nella loro espressione pittorica, l’identità tra la natura e lo stile: elaborando la loro visione della nudità femminile a partire da un insieme di punti di riferimento emotivi, accentuati un po’ qui, un po’ lì, tanto a seconda del loro temperamento che del loro umore, e disposti a vantaggio di tale o talaltro scorcio del corpo nello spazio, costoro hanno liberato lo stile nella natura. E non ci sarebbe nessuno stile se le strutture naturali non coincidessero con dei punti di riferimento emotivi, ossia con le differenti zone del corpo femminile (collo, spalle, seni, ventre, fianchi, girovita, cosce, ginocchia e polpacci) che le posizioni (accenno di movimento, riposo, stazione eretta o riversa) devono valorizzare. Ciò nonostante, il mezzo, più convenzionale in apparenza, ma più sottile, in realtà, rispetto all’intenzione dell’insieme, resta la fisionomia del modello femminile e, qualche volta, le mani che, nella donna, esprimono la coscienza di esser vista o di vedersi ella stessa nel segreto, di inventariarsi o di farsi vedere o, ancora, d’abbandonarsi a un’eventuale indiscrezione.
Nelle epoche classiche il genere convenzionale delle scene leggendarie permetteva di variare all’infinito la drammaturgia del Nudo in quanto soggetto (sorpresa, pudore, violenza), suggerendo talvolta tutte le fasi, dall’abbigliarsi alla svestizione, fino alla nudità totale, secondo gli spunti forniti dai temi trattati. Con il progressivo abbandono dei temi leggendari in favore degli aspetti della vita quotidiana, abbandono culminato con l’instaurazione del Nudo come “istantaneo”, la drammaturgia del Nudo si è interiorizzata, dopo che Fragonard, per parte sua, ebbe sviluppato una mimica prendendosi interamente gioco del manierismo che rischiava di implicare. Come avrebbe potuto, quindi, il Nudo, privato da quel momento in poi di qualsiasi pretesto confessabile che non fosse lo “studio accademico”, sostenersi se non cominciando ad essere trattato come soggetto?
Ciò che al giorno d’oggi si è soliti qualificare come aneddotico, vorrei attribuirlo, ora, al contenuto drammatico del Nudo in Ingres, Chassériau, Delacroix, Courbet, Manet e Renoir. In accordo a questa concezione, l’apparenza manifesta della nudità cela un inafferrabile segreto.