È anzitutto con la voce dei suoi miti – miti di dèi ed eroi – che la civiltà greca antica parla a Friedrich Nietzsche e a Walter F. Otto; ed è per mezzo dell’ampiezza del domandare filosofico che entrambi i filologi intendono guadagnare una consona via d’accesso all’esperienza ellenica, cogliendola al di fuori di strutture teorico-concettuali che non le appartengono. Lungi dall’essere confinato nell’ambito letterario e retorico, il mito viene incontrato – insieme al culto – in tutta la sua forza creativa, secondo un’indagine ove, in vari modi e momenti, filosofia, filologia, scienza della religione, antropologia culturale ed etnologia si intrecciano in un complesso ordito. Un retaggio romantico persiste nel discorso di ambedue gli autori: se da una parte Nietzsche lo porta al collasso facendo emergere il fondamento dionisiaco dell’esistere nei termini di un’affermazione incondizionata del divenire e della volontà, dall’altra Otto ne riabilita la centralità assegnata alla religione quale momento chiave dell’esistenza e della storia, ma marginalizzando la dimensione «mistico-misterica». Egli, così, rielabora in modo incisivo il classicismo tedesco e può riconoscere nelle figure divine dei greci le forme originarie di un essere che si dischiude nella ricca polimorfia della natura e del mondo della vita.
Nietzsche e Otto
Nietzsche rimane per Otto un punto di riferimento e un interlocutore costante. Ad accomunarli è il tentativo di trovare un accesso consono alla Grecia classica – tentativo che presuppone una messa a fuoco e una messa in discussione dei presupposti fondamentali del cristianesimo e della filosofia moderna. La Nascita della tragedia è la prima configurazione che tale progetto assume in Nietzsche. Egli la sottoporrà nel corso del tempo a un riesame sempre più serrato, non rinnegandola in toto, ma facendone emergere le criticità. Alcune sue valutazioni retrospettive sono di particolare interesse ai nostri fini. Nel Tentativo di autocritica del 1886 Nietzsche rileva, in riferimento all’opera del 1872, di essere stato troppo debitore del suo tempo – di Kant e di Schopenhauer in primis – e dunque di essere stato troppo poco inattuale. In particolare, egli si rammarica del fatto di non essere riuscito a trovare un suo «personale linguaggio», di aver «cercato faticosamente di esprimere con formule schopenhaueriane e kantiane valutazioni estranee e nuove, che erano diametralmente opposte allo spirito di Kant e Schopenhauer, come pure al loro gusto». Egli avrebbe «danneggiato irreparabilmente il grandioso problema greco, così come mi si era affacciato alla mente, mischiandovi le questioni più moderne [durch Einmischung der modernsten Dinge]».