Giampaolo Ghilardi, La morale del metodo

In letteratura filosofico-morale da qualche tempo è emerso e si sta studiando il tema delle epistemic virtues, vale a dire di quelle virtù che permettono la produzione di buona conoscenza, dove quel buona è da intendersi sia in senso epistemico, vale a dire affidabile, che in senso morale e cioè con riferimento a fini buoni.

Il passaggio ulteriore che in questo libro l’autore propone di compiere è quello di osservare l’attività scientifica nel suo aspetto più qualificante e delicato, vale a dire quello del metodo, per cogliere come proprio in questa dimensione la realtà morale sia profondamente presente. In completa antitesi rispetto a un positivismo di massima che vorrebbe escludere ogni riferimento alla sfera personale dal regno della metodologia della scienza, l’analisi intende esplicitare come il metodo – vale a dire il percorso di accesso ai fini propri delle discipline scientifiche – sia esso stesso in origine un’educazione morale dello sguardo. Una capacità di vedere-come, dove il taglio formale che la mente porta sulla realtà è appunto un’ipotesi operativa con un carico di progettualità la quale veicola un tratto etico, e cioè una forma di dover-essere.

Laspetto ontologico, la domanda sull’essere delle cose è andata perdendo progressivamente di senso all’interno delle discipline scientifiche contemporanee, insieme a questo oblio ontologico è venuta meno anche la tensione conoscitiva propria della ricerca che si attesta sul piano operativo, come funziona e si sviluppa un processo, a discapito di quello descrittivo, che cosa è ciò che ci sta di fronte. La tesi dell’oblio dell’essere nella filosofia, ma più generalmente nella cultura occidentale, non è certamente nuova, Heidegger può esserne considerato il sostenitore più autorevole l’aspetto però di quest’oblio che qui si vuole evidenziare è più specificatamente epistemologico, vale a dire che curiosamente a partire dall’indagine scientifica, l’interrogativo sull’essere delle cose subisce una significativa dimenticanza a favore del loro apparire. Si potrebbe tracciare l’origine di questa situazione nelle famose pagine galileiane dove “il tentar l’essenza” viene definita impresa vana, e per certi versi sarebbe corretto, ma il fenomenismo attuale, l’esonero dall’indagine ontologica in cui si colloca buona parte della comunità scientifica ci pare abbia un’altra genesi, più marcatamente metodologica: non importa tanto capire cosa sia ciò che ci sta innanzi, quanto sapere come estrarne informazioni utili, dove per utili occorre intendere significative per potervi operare. Il fatto è che non vi è nulla di più utile che conoscere cosa una cosa sia, per potervi poi eventualmente intervenire anche operativamente. Questa che sembrerebbe un’osservazione banale, è però il punctum dolens di buona parte dell’edificio scientifico contemporaneo.

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