Introduzione alla filosofia critica di Kant

La ragione secondo Kant

Kant definisce la filosofia come «la scienza della relazione di ogni conoscenza ai fini essenziali della ragione umana», o come «l’amore dell’essere razionale per i fini supremi della ragione umana». I fini supremi della Ragione formano il sistema della Cultura. In queste definizioni possiamo già riconoscere una duplice lotta: contro l’empirismo, e contro il razionalismo dogmatico.

Per l’empirismo la ragione, propriamente parlando, non è una facoltà dei fini. Che invece rimandano a un’affettività originaria, a una «natura» in grado di porli. L’originalità della ragione consiste in una certa maniera di realizzare fini comuni all’uomo e all’animale. La ragione è la facoltà di concatenare [agencer] dei mezzi indiretti, obliqui; la cultura è astuzia, calcolo, espediente. Indubbiamente, i mezzi originari reagiscono sui fini, e li trasformano; ma, in ultima istanza, i fini sono sempre quelli della natura.

Contro l’empirismo, Kant afferma che ci sono anche dei fini della cultura, dei fini caratteristici della ragione. Inoltre, soltanto i fini culturali della ragione possono essere detti assolutamente ultimi: «lo scopo finale non è tale che la natura sia sufficiente ad effettuarlo e a produrlo conformemente alla sua idea, perché è incondizionato».

Gli argomenti addotti da Kant, a questo proposito, sono di tre tipi. Argomento di valore: se la ragione servisse soltanto a realizzare i fini della natura, non si capisce perché dovrebbe valere più della semplice animalità (senza dubbio, dato che c’è, deve avere un’utilità e un uso naturali; ma c’è solo in rapporto a un’utilità più alta, da cui trae il suo valore). Argomento per assurdo: se la Natura avesse voluto… (Se la natura avesse voluto realizzare i suoi fini in un essere dotato di ragione, avrebbe sbagliato ad affidarsi a quello che in lui c’è di ragionevole, e avrebbe fatto meglio ad affidarsi all’istinto, sia per i mezzi che per il fine). Argomento del conflitto: se la ragione fosse solo la facoltà dei mezzi, non si capisce come nell’uomo in quanto specie animale e morale potrebbero opporsi due tipi di fini (per esempio, dal punto di vista della Natura, smetto di essere un bambino quando sono in grado di avere dei figli; ma, dal punto di vista della cultura, continuo a esserlo, perché non ho ancora un mestiere, e devo imparare ancora tutto).

Il razionalismo, dal canto suo, senza dubbio riconosce che l’essere ragionevole persegue fini propriamente razionali. Ma ciò che in questo caso la ragione concepisce come un fine è ancora qualcosa di esterno e di superiore: un Essere, un Bene, un Valore, preso come regola della volontà. D’altra parte, tra razionalismo e empirismo c’è meno differenza di quanto si potrebbe credere. Un fine è una rappresentazione che determina la volontà. Finché la rappresentazione è rappresentazione di qualcosa di esterno alla volontà, poco importa che sia sensibile o puramente razionale, in ogni caso determina il volere solo attraverso la soddisfazione legata all’«oggetto» che rappresenta. Che si consideri una rappresentazione sensibile o razionale, «il sentimento del piacere, per cui soltanto propriamente costituiscono il motivo determinante della volontà… è della stessa specie, non solo in quanto può essere sempre soltanto conosciuto empiricamente, ma anche in quanto agisce su una sola e medesima forza vitale».

Contro il razionalismo, Kant sottolinea che i fini supremi non sono soltanto dei fini della ragione, ma che la ragione, ponendoli, non sta ponendo nient’altro che se stessa. Nei fini della ragione, la ragione assume se stessa come fine. Vi sono dunque degli interessi della ragione, ma, inoltre, la ragione è il solo giudice dei propri interessi. I fini o gli interessi della ragione non sottostanno né alla giurisdizione dell’esperienza né a quella di altre istanze esterne o superiori alla ragione. Kant fin da subito respinge le decisioni empiriche e i tribunali teologici: «tutti i concetti, anzi tutti i problemi che la ragion pura ci offre, non rientrano nell’esperienza, ma solo nella ragione… solo la ragione infatti suscita dal suo seno queste idee e tocca dunque ad essa soltanto dar conto della loro validità o della loro inanità». Una Critica immanente, la ragione come giudice della ragione, è il principio essenziale del metodo detto trascendentale. Questo metodo si propone di determinare: 1° La vera natura degli interessi o dei fini della ragione; e 2° I mezzi per realizzare questi interessi.

Primo senso del termine facoltà

Ogni rappresentazione è in rapporto con qualcos’altro, oggetto e soggetto. Distinguiamo tante facoltà dell’animo [esprit] quanti sono i tipi di rapporti. In primo luogo, una rappresentazione può essere rapportata all’oggetto dal punto di vista dell’accordo o della conformità: questo caso, il più semplice, definisce la facoltà di conoscere. Ma, in secondo luogo, la rappresentazione può rientrare in un rapporto di causalità con il suo oggetto. È il caso della facoltà di desiderare: «facoltà di essere, mercé le proprie rappresentazioni, la causa della realtà degli oggetti di tali rappresentazioni». (Si obietterà che ci sono desideri impossibili; ma, anche in questo caso, nella rappresentazione in quanto tale è implicata una relazione causale, per quanto si scontri con un’altra causalità che la contraddice. La superstizione mostra a sufficienza che nemmeno la coscienza della nostra impotenza «può mettere un freno ai nostri sforzi»). Infine, la rappresentazione è in rapporto con il soggetto, finché ha un effetto su di lui, finché lo affetta [affecte] intensificando o ostacolando la sua forza vitale. Questo terzo rapporto definisce, come facoltà, il sentimento del piacere e dispiacere.

Può essere che non vi sia piacere senza desiderio, e desiderio senza piacere, piacere e desiderio senza conoscenza… ecc. Ma non è questo il problema. Non si tratta di sapere quali siano le combinazioni di fatto. Si tratta invece di sapere se ognuna di queste facoltà, così come è stata definita di diritto, sia suscettibile di una forma superiore. Diciamo che una facoltà ha una forma superiore quando trova in se stessa la legge del proprio esercizio (anche se da questa legge deriva un rapporto necessario con qualcuna delle altre facoltà). Nella sua forma superiore, una facoltà è quindi autonoma. La Critica della Ragion pura comincia con la domanda: esiste una facoltà di conoscere superiore? E la Critica della Ragion pratica: esiste una facoltà di desiderare superiore? Infine, la Critica del Giudizio: esiste una forma superiore del piacere e dispiacere? (A lungo Kant non credette a quest’ultima possibilità).

Facoltà di conoscere superiore

Una rappresentazione da sola non basta a formare una conoscenza. Per conoscere qualcosa, occorre non soltanto che abbiamo una rappresentazione, ma che ne usciamo «per conoscerne un’altra […] come ad essa legata». La conoscenza è dunque sintesi di rappresentazioni. «Noi pensiamo di rintracciare, fuori del concetto A, un predicato B, ad esso estraneo, ritenendolo tuttavia ad esso connesso»; affermiamo dell’oggetto di una rappresentazione qualcosa che non è contenuto in essa. Ora, questa sintesi si presenta in due forme: a posteriori, quando dipende dall’esperienza. Se dico «questa linea retta è bianca», si tratta appunto di un incontro tra due determinazioni indifferenti: non tutte le linee rette sono bianche, e quelle che lo sono non lo sono necessariamente.

Invece quando dico «Che la retta è la linea più breve fra due punti», «tutto ciò che muta ha una causa», sto operando una sintesi a priori: affermo B di A, come se gli fosse necessariamente e universalmente legato. (B è dunque anch’esso una rappresentazione a priori; quanto ad A, può esserlo oppure no). I caratteri dell’a priori sono l’universale e il necessario. Ma la definizione dell’a priori è: indipendente dall’esperienza. È possibile che l’a priori si applichi all’esperienza, e che in certi casi si applichi soltanto ad essa; ma non ne deriva. Per definizione, non c’è un’esperienza che corrisponda ai termini «tutti», «sempre», «necessariamente»… La più breve non è un comparativo o il risultato di un’induzione, ma una regola a priori in base a cui traccio una linea come linea retta. Parimenti, causa non è il risultato di un’induzione, ma un concetto a priori attraverso cui riconosco che nell’esperienza qualcosa accade.

Finché la sintesi è empirica, la facoltà di conoscere si manifesta solo nella sua forma inferiore: trova la sua legge nell’esperienza, e non in se stessa. Ma la sintesi a priori definisce una facoltà di conoscere superiore. Quest’ultima, infatti, non si regola più su degli oggetti che dovrebbero darle una legge; è invece la stessa sintesi a priori ad attribuire all’oggetto una proprietà che non era contenuta nella rappresentazione. Bisogna perciò che anche l’oggetto sia sottomesso alla sintesi della rappresentazione, che anch’esso si regoli sulla nostra facoltà di conoscere, e non il contrario. Quando la facoltà di conoscere trova in sé la sua legge, legifera anche sugli oggetti del conoscere.

È il motivo per cui la determinazione di una forma superiore della facoltà di conoscere è anche la determinazione di un interesse della Ragione: «la conoscenza razionale e la conoscenza a priori sono identiche», o i giudizi sintetici a priori sono anch’essi i princìpi di quelle che si debbono chiamare «le scienze teoretiche della ragione». Un interesse della ragione si definisce in base a ciò a cui la ragione si interessa in funzione dello stato superiore di una certa facoltà. La Ragione prova naturalmente un interesse speculativo; e lo prova per quegli oggetti che sottostanno necessariamente alla facoltà di conoscere nella sua forma superiore.

Se adesso chiediamo: quali sono questi oggetti?, vediamo immediatamente che sarebbe contraddittorio rispondere «le cose in sé». Come potrebbe una cosa, così come è in sé, sottostare alla nostra facoltà di conoscere e regolarsi su di essa? In linea di principio, lo possono solo gli oggetti così come appaiono, cioè i «fenomeni». (Perciò, nella Critica della ragion pura, la sintesi a priori è indipendente dall’esperienza, anche se si applica solo agli oggetti dell’esperienza). Vediamo dunque che l’interesse speculativo della ragione si rivolge naturalmente ai fenomeni, e soltanto ad essi. Non si creda che Kant abbia bisogno di lunghe dimostrazioni per giungere a questo risultato: si tratta di un punto di partenza della Critica. Il vero problema della Critica della Ragion pura comincia soltanto in seguito. Se ci fosse soltanto l’interesse speculativo, molto probabilmente la ragione non si sarebbe mai applicata alle considerazioni sulle cose in sé.

Facoltà di desiderare superiore

La facoltà di desiderare presuppone una rappresentazione che determina la volontà. Ma, in questo caso, è sufficiente fare riferimento all’esistenza di rappresentazioni a priori affinché la sintesi tra volontà e rappresentazione sia anch’essa a priori? Il verità il problema si pone in maniera completamente diversa. Anche quando una rappresentazione è a priori, determina la volontà per il tramite di un piacere legato all’oggetto che rappresenta: la sintesi resta dunque empirica, o a posteriori; la volontà è determinata in maniera «patologica»; e la facoltà di desiderare in uno stadio inferiore. Perché acceda alla sua forma superiore, bisogna che la rappresentazione smetta di essere la rappresentazione di un oggetto, sia pure a priori. Bisogna che sia la rappresentazione di una pura forma. «Ora, di una legge, se si astrae da essa ogni materia, cioè ogni oggetto della volontà (come motivo determinante), non rimane che la semplice forma di una legislazione universale». La facoltà di desiderare è perciò superiore, e la corrispondente sintesi pratica a priori, quando la volontà non è più determinata dal piacere, ma dalla semplice forma della legge. Allora la facoltà di desiderare non trova più la sua legge fuori di sé, in una materia o in un oggetto esterni, ma in se stessa: e così viene detta autonoma.

Nella legge morale è la ragione che da sé (senza il tramite di un sentimento di piacere o dispiacere) determina la volontà. Perciò esiste un interesse della ragione che corrisponde alla facoltà di desiderare superiore: un interesse pratico, che non si confonde né con un interesse empirico né con l’interesse speculativo. Kant ricorda sempre che la Ragion pratica è profondamente «interessata». Capiamo subito che la Critica della Ragion pratica si svilupperà parallelamente alla Critica della Ragion pura: si tratta in primo luogo di sapere quale sia la natura di questo interesse, e su cosa si fondi. Ovvero: dato che la facoltà di desiderare trova in sé la sua legge, su cosa si fonda questa legislazione? Quali sono gli esseri o gli oggetti che sono sottomessi alla sintesi pratica? Tuttavia non è escluso che, al di là del parallelismo tra queste questioni, in questo caso la risposta sia assai più complessa del precedente. Ci sia dunque concesso di rimandare a più tardi l’esame di questa risposta. (Non solo: ci sia anche concesso, per il momento, di non prendere in esame nemmeno la questione di una forma superiore del piacere e dispiacere, dato che il suo senso presuppone anch’esso le prime due Critiche).

Ci basta stabilire il principio di una tesi essenziale della Critica in generale: ci sono degli interessi della ragione che differiscono per natura. Questi interessi formano un sistema organico e gerarchico, che è quello dei fini dell’essere ragionevole. I razionalisti concepiscono soltanto l’interesse speculativo: secondo loro, gli interessi pratici semplicemente ne conseguono. Ma questa inflazione dell’interesse speculativo ha due conseguenze negative: ci si inganna sui veri fini della speculazione, ma soprattutto si riduce la ragione a uno solo dei suoi interessi. Con il pretesto di sviluppare l’interesse speculativo, si mutila la ragione nei suoi interessi più profondi. L’idea di una pluralità (e di una gerarchia) sistematica degli interessi, conformemente al primo senso del termine «facoltà», domina il metodo kantiano. Questa idea è un vero e proprio principio, il principio di un sistema dei fini.

Secondo senso del termine facoltà

Nel primo senso, il termine facoltà rimanda ai diversi rapporti di una rappresentazione in generale. In un secondo senso, invece, designa una fonte specifica di rappresentazioni. Si distingueranno perciò tante facoltà quanti sono i tipi di rappresentazioni. Dal punto di vista della conoscenza, il quadro più semplice è il seguente: 1° Intuizione (rappresentazione singola che si rapporta immediatamente a un oggetto dell’esperienza, e ha origine nella sensibilità); 2° Concetto (rappresentazione che si rapporta mediatamente a un oggetto dell’esperienza, per il tramite di altre rappresentazioni, e che ha origine nell’intelletto); 3° Idea (concetto che supera anch’esso la possibilità dell’esperienza, e ha origine nella ragione).

Eppure la nozione di rappresentazione, così come è stata utilizzata finora, resta vaga. Più precisamente, dobbiamo distinguere la rappresentazione da ciò che si presenta. Ciò che si presenta è innanzitutto l’oggetto così come appare. Anche il termine «oggetto» è eccessivo. Ciò che si presenta o che appare nell’intuizione è innanzitutto il fenomeno in quanto diversità sensibile empirica (a posteriori). Notiamo che in Kant fenomeno non significa apparenza, bensì apparizione. Il fenomeno appare nello spazio e nel tempo: lo spazio e il tempo sono per noi le forme di ogni apparizione possibile, le forme pure della nostra intuizione o della nostra sensibilità. In quanto tali, sono anch’esse delle presentazioni: stavolta presentazioni a priori. Ciò che si presenta non è dunque soltanto la diversità empirica dei fenomeni nello spazio e nel tempo, ma la diversità pura a priori dello spazio e del tempo stessi. L’intuizione pura (lo spazio e il tempo) è perciò la sola cosa che la sensibilità presenta a priori.

Propriamente parlando, non si dovrebbe dire che l’intuizione, nemmeno quella a priori, sia una rappresentazione, né che la sensibilità sia fonte di rappresentazioni. Nella rappresentazione ciò che conta è il prefisso: ri-presentazione, implica una ripresa attiva di ciò che si presenta, e dunque un’attività e un’unità che si distinguono dalla passività e dalla diversità caratteristiche della sensibilità in quanto tale. Da questo punto di vista, non c’è più bisogno di definire la conoscenza come sintesi di rappresentazioni. È la ri-presentazione stessa che si definisce come conoscenza, cioè come la sintesi di ciò che si presenta.

Dobbiamo quindi distinguere, da un lato, la sensibilità intuitiva come facoltà recettiva, e, dall’altro, le facoltà attive come fonti di vere e proprie rappresentazioni. Colta nella sua attività, la sintesi rinvia all’immaginazione; nella sua unità, all’intelletto; nella sua totalità, alla ragione. Abbiamo quindi tre facoltà attive che intervengono nella sintesi, ma che sono anche fonti di rappresentazioni specifiche quando le si consideri l’una in rapporto all’altra: immaginazione, intelletto, e ragione. La nostra costituzione è tale che possediamo una facoltà recettiva e tre facoltà attive. (Si potrebbero anche supporre altri esseri, diversamente costituiti; per esempio un essere divino, dall’intelletto intuitivo e capace di produrre il diverso. Ma allora, tutte le sue facoltà si riunirebbero in un’unità eminente. L’idea di un simile Essere come limite può forse ispirare la nostra ragione, ma non la esprime, e nemmeno la sua posizione in rapporto alle altre nostre facoltà).

Rapporto tra i due sensi del termine facoltà

Consideriamo una facoltà nel primo senso: nella sua forma superiore è autonoma e legislatrice; legifera su degli oggetti che le sono sottomessi; le corrisponde un interesse della ragione. Il primo problema della Critica in generale era dunque il seguente: quali sono queste forme superiori, quali questi interessi, e su cosa si fondano? Ma si pone subito un secondo problema: come si realizza un interesse della ragione? Ovvero: cosa assicura la sottomissione degli oggetti, e come vengono sottomessi? Che cosa legifera veramente nella facoltà considerata? Si tratta dell’immaginazione, dell’intelletto, o della ragione? Vediamo che, anche quando una facoltà è stata definita nel primo senso del termine, in maniera che le corrisponda un interesse della ragione, si deve cercare anche un’altra facoltà, nel secondo senso, capace di realizzare questo interesse o di assicurare la funzione legislatrice. In altri termini, nulla ci garantisce che la ragione si assuma il compito di realizzare il suo stesso interesse.

Facciamo l’esempio della Critica della Ragion pura. Comincia con la scoperta della facoltà di conoscere superiore, cioè dell’interesse speculativo della ragione. Questo interesse si rivolge ai fenomeni; i fenomeni, infatti, non essendo delle cose in sé, possono essere sottomessi alla facoltà di conoscere, e debbono esserlo affinché sia possibile la conoscenza. Ma d’altra parte chiediamo; qual è quella facoltà che, in quanto fonte di rappresentazioni, assicura questa sottomissione e realizza questo interesse? Qual è la facoltà (nel secondo senso) che legifera nella facoltà di conoscere? La celebre risposta di Kant è che nella facoltà di conoscere, o nell’interesse speculativo della ragione, solo l’intelletto legifera. In questo caso perciò non è la ragione a prendersi cura del proprio interesse: «la ragion pura rimette ogni cosa all’intelletto…».

Dobbiamo prevedere che la risposta non sarà la stessa per ogni Critica: così, nella facoltà di desiderare superiore, e dunque nell’interesse pratico della ragione, è la ragione che legifera, e non lascia ad altri il compito di realizzare il suo interesse.

Il secondo problema della Critica in generale comporta anche un altro aspetto. Una facoltà legislatrice, in quanto fonte di rappresentazioni, non sopprime ogni uso delle altre facoltà. Quando l’intelletto legifera nell’interesse conoscitivo, l’immaginazione e la ragione conservano ancora un ruolo assolutamente originale, anche se conforme a compiti determinati dall’intelletto. Quando la ragione legifera nell’interesse pratico, l’intelletto deve avere un ruolo originale in una prospettiva determinata dalla ragione… ecc. In ogni Critica, l’intelletto, la ragione e l’immaginazione faranno il loro ingresso in rapporti di tipo diverso, sotto la presidenza di una di esse. Nel rapporto tra le facoltà vi sono quindi delle variazioni sistematiche, a seconda dell’interesse della ragione considerato. Insomma: a una certa facoltà nel primo senso del termine (facoltà di conoscere, facoltà di desiderare, sentimento di piacere o dispiacere), deve corrispondere un certo rapporto tra le facoltà nel secondo senso del termine (immaginazione, intelletto, ragione). Perciò la dottrina delle facoltà forma un vero e proprio reticolo [réseau], costitutivo del metodo trascendentale.

Deleuze KantTratto dalla Gilles Deleuze, La filosofia critica di Kant (Orthotes 2019)

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