La decadenza del Nudo

Qualcuno ci dirà: il Nudo è sempre il Nudo. Nelle accademie ci sono sempre dei modelli. Ma chi oserebbe credere, o pretendere, che il Nudo sia anche ciò che vi si insegna? Anzi, come fu mai possibile che lo si insegnò?

Ecco un genere di questione che, evidentemente, non ci si poneva intorno al 1800. Ma dal 1899, a Monaco, Klee, allora allievo di Knirr, aveva già il vago sentore di perdere il suo tempo. Alla fine del suo apprendistato con Stuck, venuto a Roma insieme ad Haller, volle costringersi, ancora una volta, a lavorare dal vero, dunque a studiare il nudo e, di ritorno a Berna, i suoi scrupoli lo spinsero fino all’anatomia.

“L’anatomia, questa scienza orribile!”, aveva gridato Ingres sessant’anni prima.

Del suo periodo di apprendistato presso l’atelier Knirr, ci resta una ricerca sul Nudo intitolata: “Una famosa Donna-Uomo”. Nel contesto delle sue avventure e tentazioni erotiche di allora, annotate nel suo Diario, questo disegno vigoroso, con la visione del modello che caratterizza il titolo, rivela sia il sostrato affettivo di cui Klee, in seguito, desiderò liberarsi, sia i metodi plastici insegnati in quell’ambiente così travagliato dei quali si sbarazzò per diventare sé stesso, per accedere alla “pittura polifonica”; lui, l’antico allievo di Stuck, di questo maestro “sprovvisto del senso del colore” che, fra le altre cose, ci ha lasciato delle visioni di donne lascive accoppiate con dei serpenti. Eppure, il cattivo gusto di Stuck – “cattivo gusto” di un’epoca di cui, peraltro, grazie al surrealismo abbiamo fatto una “categoria” d’espressione che ce lo rende perfettamente accettabile – appartiene al “palpabile”: lo spazio in cui l’illuminazione non è ancora il “chiarore diffuso”, ma cospira con la visione, tanto più ossessiva quanto più convenzionale, di queste forme lunghe, rotonde e curve che caratterizzano il corpo femminile in opposizione a quelle spigolose dell’uomo. Una famosa Donna-Uomo – è nota l’importanza che i titoli avranno nell’opera di Klee – quest’equivoca “leggenda” rende conto, da sola, della profonda affinità tra l’artista e il corpo femminile che disegna. Qui l’androginia, benché puramente aneddotica, traduce una sintesi psichica sottostante, preliminare a questa circostanza: fare del Nudo.

Come l’uomo – osserva Klee – anche il quadro ha uno scheletro, muscoli e pelle. Si può parlare di un’anatomia del quadro. Un quadro il cui soggetto sia “un uomo nudo” non può essere dipinto secondo l’anatomia umana ma secondo quella del quadro stesso. Prima si erige un’impalcatura per l’opera da dipingere. Di quanto si possa sorpassarla è facoltativo; già dall’impalcatura può nascere un effetto più profondo che dalla sola superficie.

Il caso così particolare di Klee, contemporaneo, ai suoi esordi, del secondo periodo dell’impressionismo, offre un punto di riferimento storico di prim’ordine per la concezione del quadro “in sé” che si è imposta in tutte le ultime tendenze. Nel 1905, Klee osserva ancora:

L’oggetto in sé è di certo inesistente. È la sensazione dell’oggetto che passa in prima linea. Il prevalere di sensazioni erotiche non è soltanto una caratteristica dei francesi, bensì una preferenza di oggetti che favoriscono in modo particolare la sensazione. La forma esteriore diventa così particolarmente variabile e si muove su tutta la scala dei comportamenti; con la mobilità di una lancetta indicatrice, si potrebbe dire in questo caso. Corrispondentemente variano i mezzi rappresentativi tecnici. La scuola dei vecchi maestri è certamente superata.

Klee attribuisce la varietà dei mezzi tecnici alla maturazione della sensibilità, e questa maturazione alla “preponderanza dei soggetti erotici”, nella misura in cui solleticano la sensibilità pittorica. È così che i mezzi messi all’opera per uno scopo sensibile finiscono per vincerlo, subordinarlo, e noi otteniamo la nozione intellettualista di quadro in sé. L’anatomia umana della “bella nudità” viene riassorbita dall’“anatomia del quadro”. La “bella nudità” (il Nudo in quanto soggetto) cede il passo al Nudo motivo, al Nudo fortuito, e quest’ultimo, dapprima neutralizzato, si disarticola o dissolve, a poco a poco, secondo le leggi proprie, oramai, del quadro in sé.

Che il nudo sia da figurare non secondo l’anatomia umana ma secondo quella del quadro significa, semplicemente, che la sintassi del quadro – colori sparsi su una superficie piana – deve essere rispettata, anzitutto, a prescindere dalla nostra ottica naturale. Ciò al fine di tradurre al meglio, con delle equivalenze, il nostro contenuto di esperienza. Tutti i maestri non hanno forse lavorato così?

Ma non è solo questo che Klee vuole dire: l’anatomia del quadro suppone che il quadro sia un in sé che si anima e respira secondo leggi proprie, poco importa ciò che gli si dà da divorare per sostentarlo.

La grande odalisca di Ingres e Le grandi bagnanti di Renoir presuppongono, per caso, questa anatomia del quadro indipendentemente dall’anatomia dei Nudi che rappresentano? Senza alcun dubbio.

E affineremo il nostro ragionamento dicendo, ad esempio, che quando si tratta di una Odalisca di Ingres o della Donna col pappagallo di Delacroix il quadro, in, offre un Nudo, che è un altro “in”? Evidentemente no: questi quadri mostrano esattamente ciò che i loro titoli dicono. L’“anatomia” del quadro è qui distinta da quella delle donne rappresentate?

Precisamente, che cos’è la “bella nudità”? E, in rapporto ad essa, che cos’è dunque il Nudo? Termine puramente accademico atto, da un lato, a rassicurare l’osservatore e, dall’altro, a garantire le intenzioni dell’artista che difende il proprio diritto a studiare la “natura”. Tutti sanno, tutti sanno da almeno più di cent’anni, che il Nudo era l’occasione concessa, grazie al prestigio riconosciuto di un maestro, di guardare una “bella donna nuda”. Punto di vista liceale, fantasticheria puberale, senza dubbio sfruttata da una statuaria e da una pittura discutibili, denunciata secondo il criterio del “buono” e del “cattivo gusto” (in accordo al quale anche Delacroix deplorava alcuni nudi di Courbet). Ma ai nostri giorni, da quando il rinnovamento delle tecniche nelle arti plastiche ha assicurato l’universalizzazione del “buon gusto”, i “minori di sedici anni” sanno che per vedere delle belle nudità non è nei musei che devono andare, ma al cinema. Che progresso! Dopo la fotografia, il cinema avrà, a fortiori, “liberato la pittura dal bisogno di imitare la natura”.

Tuttavia, tra il 1800 e il 1900, tanto l’artista, anche se si chiamava M. Ingres, quanto l’osservatore dei suoi quadri, conservano l’anima del liceale con le sue puberali fantasie. La disincantata conclusione degli eroi de L’educazione sentimentale – “è forse quanto di meglio abbiamo avuto” – è ciò che forma il fondo della sensibilità sia alla fine del secolo scorso che all’inizio del nostro, e questo indistintamente presso gli imbrattatele, i grandi maestri e i loro rispettivi pubblici. Nondimeno, a mano a mano che le crisi e i disagi sociali incombono, che le convulsioni del mondo moderno si fanno sempre più opprimenti, la cattiva coscienza attacca questa ingenuità, assieme alle sue forze impulsive, in pittura come altrove. Persino nella visione pittorica del Nudo è possibile rintracciare i sintomi di questa nociva atmosfera di infelicità e dell’angoscia della vita moderna. Solo che essi non hanno nulla in comune con ciò che, allo stesso proposito, si è potuto manifestare nelle epoche precedenti. Anche l’aggressività di un Goya si fa complice dei malesseri sociali e sfrutta l’angoscia ai fini della propria arte. Ma Goya si guarda bene dall’esprimere questa angoscia esterna nei suoi nudi altrimenti che con l’emozione provata davanti al suo modello.

Da quarant’anni a questa parte accade tutto il contrario. Preoccupazioni umanitarie, rivolte per la miseria collettiva si combinano qua e là con delle visioni individuali esasperate; tutto un clima di rivendicazioni che non tollerano più la visione ingenua e immediata delle immagini di questo mondo: clima essenzialmente iconoclasta che, all’indomani del modern style, al crepuscolo dell’impressionismo, crea le condizioni favorevoli all’avvento della “nuova oggettività”, soprattutto presso i temperamenti tedeschi. Costoro crederanno di scoprire, nelle immagini di una serenità tramontata, per come ancora sopravvivono in qualcuno degli ultimi maestri francesi, i segni della decadenza “latina”. Sono temperamenti che, con una disposizione innata per la malinconia, interpreteranno Van Gogh a partire dalla sua patologia, sfruttando il suo tratto e la sua linea sì da prolungare nell’espressionismo la loro propensione alla catastrofe.

Certe nostalgie di fine secolo, in particolare alcune ossessioni ermafrodisiache pronunciate nell’ornamentalismo del modern style, annunciavano in Beardsley, ma anche ne La Vergine nell’albero di Klee, il “Nudo angosciato dalla sua indeterminazione sessuale”: l’espressione estetica delle rivendicazioni pederasto-femministe contemporanee alle indagini di Havelock Ellis; l’ideale effimero e inconsistente con cui, all’epoca, si contrastavano le forti e terribili evocazioni delle “prostitute” di Lautrec. Picasso, che allora non aveva ancora sviluppato le risorse infinite della sua artigianale polivalenza, sembra aver fatto ironicamente eco all’ideale di questo “Nudo angosciato” nelle sue Due sorelle, benché, per altro verso, avesse espresso delle reminiscenze pompeiane nel nudo La Toilette.

Nel contesto di questo crepuscolo della leggenda del corpo femminile, il caso di Gauguin è significativo: nei suoi nudi, il tipo esotico di ragazze tahitiane sembra riabilitare la natura in quanto stile.

Che senso attribuire all’emancipazione proposta da Gauguin, colui per il quale la “barbarie era un ringiovanimento”, lui che diceva di esser regredito ben al di là dei cavalli del Partenone, fino al cavalluccio della sua infanzia? Risponderò con qualcosa di completamente marginale che, pur non avendo niente a che vedere con il rinnovamento delle tecniche pittoriche, riguarda il “cavalluccio dell’infanzia”: la serenità animale del tipo esotico delle sue ragazze tahitiane segna una nuova rottura con un elemento importante della visione classica della “bella nudità”: l’auto-esibizionismo della donna caratteristico del Nudo tradizionale. Come evidenziare l’assenza di questo elemento nei quadri tahitiani di Gauguin? Tocchiamo, qui, un complesso, specificamente occidentale, di cui la pittura moderna ha voluto purgarsi: il complesso dello svelamento.

I maestri del Nudo tradizionale – del Nudo in quanto soggetto distinto dal Nudo fortuito – hanno rispettato, nella loro espressione pittorica, l’identità tra la natura e lo stile: elaborando la loro visione della nudità femminile a partire da un insieme di punti di riferimento emotivi, accentuati un po’ qui, un po’ lì, tanto a seconda del loro temperamento che del loro umore, e disposti a vantaggio di tale o talaltro scorcio del corpo nello spazio, costoro hanno liberato lo stile nella natura. E non ci sarebbe nessuno stile se le strutture naturali non coincidessero con dei punti di riferimento emotivi, ossia con le differenti zone del corpo femminile (collo, spalle, seni, ventre, fianchi, girovita, cosce, ginocchia e polpacci) che le posizioni (accenno di movimento, riposo, stazione eretta o riversa) devono valorizzare. Ciò nonostante, il mezzo, più convenzionale in apparenza, ma più sottile, in realtà, rispetto all’intenzione dell’insieme, resta la fisionomia del modello femminile e, qualche volta, le mani che, nella donna, esprimono la coscienza di esser vista o di vedersi ella stessa nel segreto, di inventariarsi o di farsi vedere o, ancora, d’abbandonarsi a un’eventuale indiscrezione.

Nelle epoche classiche il genere convenzionale delle scene leggendarie permetteva di variare all’infinito la drammaturgia del Nudo in quanto soggetto (sorpresa, pudore, violenza), suggerendo talvolta tutte le fasi, dall’abbigliarsi alla svestizione, fino alla nudità totale, secondo gli spunti forniti dai temi trattati. Con il progressivo abbandono dei temi leggendari in favore degli aspetti della vita quotidiana, abbandono culminato con l’instaurazione del Nudo come “istantaneo”, la drammaturgia del Nudo si è interiorizzata, dopo che Fragonard, per parte sua, ebbe sviluppato una mimica prendendosi interamente gioco del manierismo che rischiava di implicare. Come avrebbe potuto, quindi, il Nudo, privato da quel momento in poi di qualsiasi pretesto confessabile che non fosse lo “studio accademico”, sostenersi se non cominciando ad essere trattato come soggetto?

Ciò che al giorno d’oggi si è soliti qualificare come aneddotico, vorrei attribuirlo, ora, al contenuto drammatico del Nudo in Ingres, Chassériau, Delacroix, Courbet, Manet e Renoir. In accordo a questa concezione, l’apparenza manifesta della nudità cela un inafferrabile segreto.

Nella pittura tradizionale il Nudo figura abitualmente all’esterno, ma un esterno leggendario, immaginativo, come emanato dalla visione del nudo (mitologico). Nella pittura romantica, la nudità riattiva questo esterno leggendario appena si svela in uno spazio chiuso.

La pittura cosiddetta “realista”, dunque anteriore all’impressionismo – penso soprattutto a Courbet – non assimila, per mezzo di una luce diffusa, i Nudi collocati in un paesaggio agli aspetti naturali dell’ambiente, come invece farà la pittura en plein air; il suo effetto è, piuttosto, rivelare la nudità come qualcosa di segreto nell’aperto del paesaggio – nudo accosciato sulla riva, al bordo del mare, o sotto un fitto fogliame scuro, sopra le onde.

Una nudità femminile in uno spazio chiuso – dentro una camera – di Delacroix, nella misura in cui la sua animalità si accende sotto le grazie del suo corpo mentre questo emerge dall’oscura intimità della stanza, appare nel quadro come un esterno catturato all’interno della donna stessa.

I maestri moderni che hanno conservato il Nudo nella sua visione tradizionale, rispettavano, di fatto, lo stile nella natura, l’identità tra la natura e lo stile. Ma nella loro rappresentazione della Donna nuda – sia essa una Dormiente, una Bagnante o una donna che ozia – il sentimento della propria nudità culmina sempre, in un modo o nell’altro, nell’attitudine della testa o nell’espressione del viso. Ora, nella donna, questo sentimento cosciente della propria nudità che i maestri esprimono con un gioco qualunque della fisionomia, fissa il momento “animale” della sua presenza corporea in un motivo pittorico. Mi riferisco, qui, a un insieme di operazioni mentali, a un gioco di specchi senza il quale il Nudo tradizionale, il Nudo soggetto, non avrebbe mai potuto esplicitarsi in pittura.

Che si tratti di un sentimento narcisistico o di un godimento della propria corporeità, è comunque questo sentimento che, nella fisionomia della donna rappresentata, riflette lo sguardo del pittore. Nel torpore delle Due amiche di Courbet – (Il Sonno) – i volti delle due ragazze, dalle espressioni molto differenti anche se colti da una sonnolenza simile, serbano la maschera di una coscienza, di uno stato di veglia assunto dall’artista.

Un conto è riprodurre l’oggetto che emoziona, un altro è riprodurre quest’emozione stessa, sia attraverso una vibrazione luminosa, sia ricostruendo un insieme di colori che la significhi: nel secondo caso, siamo in un altro mondo dove, con l’incomunicabile esperienza che ognuno può avere, e della nudità e dell’universo tutto intero, si comunica solo con degli ideogrammi.

Eppure, in ognuno di questi maestri, c’è stato qualcosa di incomunicabile, un’idiosincrasia che, senz’altro, hanno dovuto rinunciare ad esprimere: ed è forse questa rinuncia a rendere ancora più intensi gli accenti della loro espressione più scientemente convenzionale.

Come osservatore di un quadro di uno di questi maestri, mi guarderei bene dal ripercorrere con lui le tappe della sua elaborazione; la possiedo al primo colpo d’occhio nell’effetto che produce su di me. Ma così capisco che sto effettuando il processo inverso e raggiungo immediatamente il punto di partenza, ossia l’emozione iniziale. È questo il risultato del quadro. Nondimeno, affinché questa emozione mi giunga o io la trovi, è stato necessario che il pittore percorresse con precisione le tappe della sua elaborazione. Beninteso, qui non si tratta del quadro “compiuto” o “incompiuto”. La minima ricerca, il disegno più tenue possono contenerlo integralmente.

Sto parlando del quadro come di un osservatore non informato di ciò che il quadro rappresenta: in questo caso una donna nuda. Non voglio affatto sapere che la fotografia della Grande Odalisca [è la fotografia di un dipinto – n.d.t.]. Dirò ch’essa mi incanta pressappoco come l’originale che posso andare a vedere in ogni momento al Louvre. Ma è una pura coincidenza …

È stato utile ricordare che l’arte non è una copia documentaria della realtà immediata come la fotografia, bensì un’interpretazione. Tuttavia, può ancora interessarci questo argomento? Chi non s’accorge, chi non sa, al giorno d’oggi, che anche la fotografia è un’interpretazione? Non si percepisce [appréhende] mai la realtà, ma sempre una visione della mente. Il naturalismo in pittura, come in letteratura, non è che una forma di lirismo.

Ieri si trattava di rifiutare la superstiziosa oggettività scientifica. Ma cosa ci importa, oggi, dell’oggettività della rappresentazione? Ieri il Nudo riproduceva, oggi si rappresenta in fotografia.

La nozione stessa di Nudo non è che la neutralizzazione – un compromesso estetico e sociale – di un fatto primitivo e violento: è contro questa neutralizzazione che sono insorti i temperamenti più sovversivi della pittura moderna. Con un risultato strano: la loro insurrezione ha distrutto ciò che volevano liberare. La rottura della neutralizzazione non è avvenuta che al prezzo del fatto primitivo.

È nello sguardo profanatore del corpo femminile che consisteva la violenza primitiva di cui il corpo è il simulacro. In sé, il simulacro è il frutto di un lavoro; resta però violenza simulata dell’osservatore. Il simulacro è, al tempo stesso, al di qua e al di là della violenza, tutto intero nello sguardo. Ma è attraverso lo sguardo che il simulacro della messa a nudo s’appropria del corpo della donna immaginaria e la donna immaginariamente reale, espropriata del suo corpo, si ricostituisce immaginativamente in quanto nudità sotto lo sguardo dell’osservatore.

Un quadro cosiddetto “erotico” che rappresenta una scena di stupro non ha nulla in comune col simulacro dell’appropriazione del corpo femminile tramite la sua visione in quanto nudità. Una simile rappresentazione è solo l’esplicitazione fortuita della violenza primitiva che inerisce allo sguardo gettato sulla nudità. Il quadro cosiddetto “erotico” svuota e depura lo sguardo di tutto il potenziale esplosivo di cui il Nudo tradizionale, invece, rimane sempre caricato.

Per il pubblico contemporaneo della Colazione sull’erba e dell’Olympia, tale visione equivaleva ancora a una lacerazione della banalità quotidiana, dunque all’apertura di una regione interdetta. Noi altri, però, viviamo interamente in un aperto illimitato. La pittura, oggi, ci sembra svolgere quella tela senza fine che immaginava Delaunay, tela che è la negazione stessa della durata implicita alla visione del motivo, implicita alla visione della nudità. Nel nostro universo, è proprio il principio dello sguardo ad essere rimesso in causa.

Siamo lontani dal fatto primitivo: lontani da questo spazio, interno allo sguardo, dove il motivo è stato percepito [appréhendé], sentito e concepito; lontani dall’istante dell’emozione iniziale in cui l’occhio dell’artista e dell’osservatore si identificano. Qui, come in una reminiscenza, l’osservatore trova menzione del suo turbamento nell’esperienza dell’Altro, l’artista, che è l’altro per eccellenza, e questi, con la sua testimonianza, offre all’osservatore il commento di una comune emozione. È questo commento che, se posso osare dire, costituisce la leggenda di un quadro e ci trattiene per la durata di questa leggenda: là dove si compie la reminiscenza. In effetti, la reminiscenza della nudità femminile nella “fattura” tradizionale del Nudo svolge una funzione analoga a quella della somiglianza nel ritratto.

Tratto da: Pierre Klossowski, La somiglianza, Orthotes 2022

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