Kafka, una lettera arrivata a destinazione

Nel 2001 il premio Darwin per l’azione più stupida è stato conferito postumo a una sfortunata donna, originaria della campagna rumena, risvegliatasi nel bel mezzo del suo corteo funebre. Dopo essersi trascinata fuori dalla bara, e aver realizzato cosa stava accadendo, in preda al panico fuggì alla cieca dal corteo funebre e, su una strada trafficata, venne investita da un camion, morendo sul colpo. Venne così ricollocata nella bara e il corteo funebre proseguì…. Non è forse questo l’esempio per eccellenza di quanto chiamiamo destino: di una lettera che arriva a destinazione?

Nel 1937-38, in attesa dell’esecuzione nella prigione di Lubyanka a Mosca, Nikolaj Bucharin scrisse prolificamente, portando a termine quattro notevoli manoscritti: un libro sulla filosofia marxista, uno su socialismo e cultura, un romanzo e un libro di poesie. I manoscritti sopravvissero miracolosamente e i primi tre sono ora disponibili in inglese. Le chiavi di questo straordinario lavoro sono la costellazione in cui fu scritto e il suo destinatario: Bucharin era perfettamente consapevole del fatto che presto sarebbe stato fucilato e che i libri non sarebbero stati pubblicati, e affidava i libri alla sua guardia carceraria affinché fossero consegnati a Stalin (il quale li conservò). Benché scritti come libri concepiti per un pubblico universale-anonimo, il loro vero destinatario era solo una persona, Stalin stesso, che Bucharin, in un ultimo gesto disperato, tentò di ammaliare con il suo talento intellettuale. Il destino del “testamento” di Nikolai Bucharin, una lettera che scrisse alla moglie Anna Larina nel 1938 alla vigilia della sua esecuzione, è un caso tragico di come una lettera arrivi sempre alla sua destinazione. La lettera sparì negli archivi segreti sovietici e venne consegnata a Anna Larina solo nel 1992. “Bucahrin, alla viglia della sua prova fatale, la esortava a ‘ricordare che la grande causa dell’URSS sopravvive, e che questa è la cosa più importante. Al confronto, i destini personali sono transitori e inessenziali’. Lei la lesse in un mondo in cui l’URSS era appena crollata”. La lettera di Bucharin arrivò a destinazione – raggiunse Anna Larina – proprio al momento giusto; si potrebbe dire che fu consegnata non appena ciò fu possibile, cioè non appena la situazione storica rese possibile il fatto che la sua consegna avrebbe prodotto un effetto-verità. Bucharin percepì il suo destino tragico come insignificante rispetto al fiorire della grande causa storica dell’URSS: la continuità di tale causa garantiva che la sua morte non fosse senza significato. Letta quando l’URSS scomparve, la lettera ci mette di fronte all’insignificanza della morte di Bucharin: non c’è nessun grande Altro a redimerlo. Egli è letteralmente morto invano.

Una lettera può arrivare a destinazione anche quando il suo destinatario rifiuta di riceverla – come avviene verso la fine di Troilo e Cressida, il capolavoro dimenticato di Shakespeare, quando Troilo, l’amante deluso, fa a pezzi e getta via la lettera di Clessidra nella quale lei tenta di spiegargli il suo flirt con Diomede. Non conosceremo mai il contenuto della lettera, anche se la scena non può fare a meno di risvegliare le nostre aspettative melodrammatiche: riuscirà Cressida a redimersi, a “spiegare tutto questo”? La forza di tale aspettativa chiarisce perché, per tutto il diciottesimo secolo, la versione del dramma che veniva rappresentata di solito era quella rivista da Dryden nel 1679, nella quale Cressida è pienamente redenta: apprendiamo che aveva architettato, assieme a suo padre, uno stratagemma per ritornare a Troia e da Troilo, e che il suo apparente abbandonarsi a Diomede era solo un trucco per permettere che ciò accadesse. E se, invece, Shakespeare avesse voluto significare qualcosa – e non solo tenere desta la nostra curiosità – nel non divulgarne il contenuto? Se la lettera fosse stata concepita per essere rifiutata? La scena a cui questa lettera si riferisce accade prima, cioè quando, dopo che Cressida e Troilo hanno passato la loro prima (e unica) notte insieme, lei viene consegnata da suo padre ai greci, come parte di un freddo baratto, in cambio di un guerriero troiano catturato dai greci. Nel campo greco, Cressida viene data come bottino a Diomede: nella sua tenda, amoreggia con lui e gli si concede senza pudore, mentre viene osservata da Troilo, condotto alla tenda da Ulisse. Una volta che Diomede esce dalla tenda, lei riflette a voce alta:

Troilo, addio! uno dei miei occhi ancora guarda a te, ma l’altro occhio vede nel mio cuore. Ah, povero sesso nostro; questa colpa io trovo in noi, che l’errore del nostro occhio dirige il nostro animo. Quel che guida l’errore non può non errare. Oh, quindi si concluda che gli animi governati dagli occhi son pieni di turpitudini.

La questione cruciale da porre è: e se Cressida fosse stata consapevole, per tutto il tempo, di essere osservata da Troilo? e avesse finto di pensare ad alta voce, da sola? Se l’intera scena di seduzione, col suo tentativo spudorato di destare il desiderio di Diomede, fosse stata inscenata per lo sguardo di Troilo? Non dimentichiamo che Cressida annuncia la sua natura divisa già durante il primo angosciato incontro con l’amante, allorquando avverte sinistramente Troilo:

ho un genere di me che risiede con voi; però per me sì ingeneroso che vuole abbandonar se stesso per essere lo zimbello di un altro

presagendo così la sua amara attestazione, dopo aver assistito al suo flirt con Diomede, che in lei non sussiste alcuna unità. Questa sua strana dislocazione interna è più complessa di quanto possa apparire: parte di lei lo ama, ma questa parte è “ingenerosa” e, con la stessa necessità che l’ha stretta a Troilo, la spingerà presto verso un altro uomo.

La lezione generale ricavabile da tutto ciò è che, se si vuole interpretare una scena o un’espressione, talvolta la chiave è individuare il suo vero destinatario. In uno dei migliori romanzi di Perry Mason, l’avvocato assiste a un interrogatorio di una coppia durante il quale il marito dice al poliziotto, in modo sorprendentemente dettagliato, cosa è accaduto, cosa ha visto e cosa pensa sia accaduto. Perché questo eccesso di informazioni? Soluzione: questa coppia ha commesso l’omicidio e il marito, consapevole che lui e la moglie sarebbero presto stati arrestati in quanto sospettati di omicidio e tenuti separati l’uno dall’altro, utilizzò questa opportunità per raccontare alla moglie la (falsa) storia a cui entrambi avrebbero dovuto attenersi. Il vero destinatario di quell’interminabile discorso non era quindi la polizia, ma sua moglie.

Questa lettera che raggiunge la propria destinazione senza essere stata inviata è la lettera di Franz Kafka a suo padre. Ma che cos’è un padre? In una recente conversazione, Hanif Kureishi mi raccontava del suo ultimo romanzo, la cui trama è differente rispetto a quelli precedenti; ironicamente gli ho domandato: “ma l’eroe è, nondimeno, un immigrato con un padre pakistano, che è uno scrittore fallito…”. Lui ha replicato: “Dov’è il problema? Non abbiamo, noi tutti, padri pakistani che sono scrittori falliti?”. Aveva ragione, e ciò è quanto Hegel intendeva con singolarità elevata all’universale.

La torsione patologica esperita da Hanif Kureishi in suo padre è parte di ogni padre. Non c’è un padre normale: il padre di ciascuno di noi è una figura che non è riuscita a essere all’altezza del proprio mandato, lasciando così al figlio il compito di saldare i propri debiti simbolici. In questo senso, lo scrittore fallito pakistano di Kureishi è un universale singolare, un singolare che sostituisce l’universalità.

In ciò consiste l’egemonia, questo cortocircuito tra l’universale e il suo caso paradigmatico (esattamente nel senso kuhniano del termine): non basta dire che il caso specifico di Kureishi è solo uno fra i casi esemplificativi del fatto universale che quella del padre è ancora un’altra “professione impossibile”. Si deve fare un passo ulteriore e affermare che, propriamente, tutti noi abbiamo padri pakistani che sono scrittori falliti…. In altre parole, dobbiamo immaginare essere-un-padre come un ideale universale che ogni padre empirico tenta di raggiungere e che, alla fine, non riesce a essere: ciò significa che la vera universalità non è quella dell’ideale essere-un-padre, ma quella del fallimento stesso.

In ciò risiede la vera impasse attuale dell’autorità paterna: nella riluttanza crescente del padre (biologico) ad accettare il mandato simbolico “padre”: questa impasse è il motivo segreto che attraversa i film di Steven Spielberg. Tutti i suoi film decisivi – E.T., L’impero del sole, Jurassic Park, Schindler’s List – sono variazioni su questo tema. Va ricordato come la famiglia del ragazzino a cui appare E.T. fosse stata abbandonata dal padre (come apprendiamo proprio all’inizio), cosicché E.T. è in definitiva una sorta di “mediatore evanescente” che fornisce un nuovo padre (lo scienziato buono che, nelle ultime immagini del film, vediamo abbracciare la madre): quando arriva il nuovo padre, E.T. può ripartire e “andare a casa”. L’impero del sole è incentrato su un ragazzo abbandonato dalla famiglia, in una Cina devastata dalla guerra, che sopravvive grazie all’aiuto di un padre sostituivo (interpretato da John Malkovich). Nella prima scena di Jurassic Park, vediamo la figura paterna (interpretata da Sam Neill) che minaccia, per scherzo, i due bambini con un osso di dinosauro. Quest’osso è chiaramente il minuscolo oggetto-macchia che, più tardi, esplode in giganteschi dinosauri, tanto da poter azzardare l’ipotesi che, entro l’universo fantasmatico del film, la furia distruttrice dei dinosauri non fa altro che materializzare la rabbia del Super Io paterno. Un dettaglio appena percettibile, che giunge più avanti, circa a metà film, conferma questa lettura. Neill e i due bambini, braccati, trovano rifugio dal letale dinosauro carnivoro in un gigantesco albero. Qui, stanchi morti, si addormentano. Sull’albero, Neill perde l’osso di dinosauro che teneva nella cinghia, ed è come se questa perdita accidentale avesse un effetto magico: prima che si addormentino, Neill si riconcilia coi ragazzi e si mostra affettuoso e premuroso nei loro confronti. Significativamente, la mattina dopo il dinosauro che si avvicina all’albero, risvegliando il gruppo ancora assopito, è un benevolo esemplare erbivoro…. Schindler’s List è, nel suo livello più elementare, un remake di Jurassic Park (e, se possibile, peggiore dell’originale), con i nazisti come mostri dinosauri, Schindler (all’inizio del film) come figura parentale opportunista e cinico-approfittatrice e con gli ebrei del ghetto come bambini minacciati (la loro infantilizzazione nel film è palese). La storia narrata riguarda la graduale riscoperta da parte di Schindler del suo dovere paterno nei confronti degli ebrei e la sua trasformazione in un padre responsabile e premuroso. E La guerra dei mondi non è forse l’ultima puntata di questa saga? Tom Cruise interpreta un padre divorziato, appartenente alla working class, che trascura i suoi due figli; l’invasione degli alieni risveglia in lui gli appropriati istinti paterni e riscopre se stesso come padre premuroso: non sorprende che, nell’ultima scena, conquisti il riconoscimento da parte del figlio, che l’aveva disprezzato per tutta la durata del film. Alla maniera dei racconti del diciottesimo secolo, il film avrebbe potuto avere per sottotitolo “La storia di come un padre lavoratore si riconcilia finalmente con suo figlio”…. Si potrebbe, in effetti, immaginare il film senza gli alieni assetati di sangue: ciò che resta è, in qualche modo, “ciò in cui il film realmente consiste”, e cioè la storia di un padre divorziato appartenente alla working class, che lotta per guadagnare il rispetto dei suoi due bimbi. Risiede in questo l’ideologia del film. Riguardo i due livelli della storia (il livello edipico dell’autorità paterna persa e recuperata; il livello spettacolare del conflitto con gli invasori alieni) vi è una evidente dissimmetria, dal momento che il livello edipico è ciò in cui la storia “realmente consiste”, mentre quello spettacolare esterno non è che la sua estensione metaforica. C’è un bel dettaglio nella colonna sonora del film che chiarifica la predominanza di questa dimensione edipica: gli attacchi degli alieni sono accompagnati dal terrificante suono di una nota bassa di trombone, stranamente simile al suono greve di contrabbasso e tromba del canto tibetano buddista, cioè la voce del padre cattivo sofferente-morente (in chiaro contrasto con il “bel” frammento melodico pentatonico che identifica l’alieno “buono” nel film di Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo).

Già Franz Kafka articolava questa crisi dell’autorità paterna in tutta la sua ambiguità; non deve sorprendere che la prima impressione che si ha leggendo la lettera di Kafka a suo padre è che in essa manchi qualcosa – la svolta finale tra le righe della parabola della porta della legge (“Questa porta era destinata a te …”): la manifestazione della rabbia e del terrore del padre è qui solo per te, tu ne sei investito, tu la subisci…. Si può facilmente immaginare il vero Hermann Kafka come un placido e gentile gentleman, sinceramente sorpreso dal ruolo giocato dall’immaginazione del figlio.

Così, per dirla in un modo californiano, Kafka aveva un serio problema attitudinale rispetto a suo padre. Quando Kafka si identificò come “Lowy”, prendendo il cognome materno, si inserì in una sequenza comprendente anche Adorno (anch’egli passato dal cognome del padre, Wiesegrund, a quello della famiglia materna), per non parlare di Hitler (da Schicklgruber), tutti quanti a disagio nell’assumere il ruolo di portatore del cognome del padre. Questa è la ragione per cui una delle questioni nella lettera al padre è l’affermazione di Kafka che sarebbe stato possibile per lui accettare (la persona di) suo padre, di stabilire con lui una relazione non traumatica, se questi fosse stato un amico, un fratello, un capo, persino un patrigno, ma non suo padre…

Ciò che inquieta Kafka è l’eccesso di presenza di suo padre: è troppo vivo, troppo oscenamente intrusivo. Tuttavia, questo eccesso di presenza del padre non è un fatto diretto: appare come tale solo sullo sfondo costituito dalla sospensione della funzione simbolica paterna. Tale “troppità [too-muchness]” di padre (come l’avrebbe definita Eric Santner) è in definitiva la troppità della vita stessa, la qualità umiliante dell’eccesso di vitalità del padre che mina alla base la sua autorità.

Nessun commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

X