Jean Hyppolite

Jean Hyppolite (1907-1968) pubblicò nel 1939 la prima traduzione in francese della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra divenne professore all’Università di Strasburgo, dove scrisse Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel (1946), prima di spostarsi alla Sorbona nel 1949. Nel 1952 pubblicò Logica ed esistenza, un lavoro che avrebbe avuto grande influenza su quello che sarebbe stato conosciuto come Postmodernismo. Nel 1954 divenne direttore dell’École Normale Supérieure e nel 1963 venne eletto al Collège de France, dove gli fu assegnata la cattedra in Storia del pensiero filosofico. La sua influenza si estese a un numero consistente di pensatori, tra i quali Foucault, Derrida, Balibar e Deleuze.

Prima di studiare la struttura della Fenomenologia si pone una questione ineludibile. È essa una storia dell’umanità o vuol essere per lo meno una filosofia di tale storia? Già Schelling nel Sistema dell’idealismo trascendentale pone in termini molto generali il problema che una filosofia della storia deve risolvere. Sarà bene riprendere qui gli accenni – sono solo accenni – contenuti in quel sistema per scorgere meglio le somiglianze e le differenze tra la Fenomenologia e una simile filosofia della storia.

Schelling si pone la questione di una «possibilità trascendentale della storia»: essa deve condurlo a una filosofia della storia la quale sarà per la filosofia pratica ciò che la natura è per la filosofia teorica. Nella natura, infatti, si trovano realizzate le categorie dell’intelligenza, e nella storia trovano la loro espressione quelle della volontà. Per un determinato individuo l’ideale pratico, quello di un ordine di diritto cosmopolitico, è solo un ideale lontano la cui realizzazione dipende non soltanto dal suo libero arbitrio ma da quello degli altri esseri razionali. La storia dà dunque sulla specie umana, non sull’individuo: «Tutte le mie azioni vanno, come al loro ultimo fine, a qualche cosa che è realizzabile non per mezzo dell’individuo soltanto, ma per mezzo dell’intera specie». Quindi non c’è storia se non dell’umanità. Ora, questa è una storia possibile solo alla condizione che la necessità vi si trovi conciliata con la libertà, l’oggettivo col soggettivo, l’inconscio col conscio. In altri termini «la libertà dev’essere garantita da un ordinamento, il quale sia così palese e immutabile come quello della natura». La storia deve avere un senso. La libertà vi si deve realizzare necessariamente, l’arbitrio individuale non deve svolgervi che una parte episodica e frammentaria. A che vi sia veramente una storia dell’umanità, la quale sia per la filosofia pratica ciò che la natura è per la filosofia teorica, è necessario che all’azione consapevole delle individualità si aggiunga un’azione inconscia. Tale identità del libero arbitrio e della necessità permette a Schelling di ritrovare il suo Assoluto nella storia e di non vedere in questa solo un agire degli uomini senza garanzia d’efficacia permanente, sibbene una manifestazione o rivelazione dell’Assoluto stesso. «Nella libertà deve ritrovarsi la necessità, significa dunque altrettanto che: per mezzo della libertà medesima, e mentre io credo di operare liberamente, deve nascere in maniera inconscia, cioè senza la mia cooperazione, ciò che io non mi proponevo; o in altri termini: all’attività cosciente, perciò a quell’attività liberamente determinante che noi abbiamo dedotta innanzi, deve essere opposta un’attività inconscia, mercé la quale, nonostante la più illimitata estrinsecazione della libertà, deve nascere affatto involontariamente, e forse pure contro la volontà dell’operante, qualche cosa che egli stesso non avrebbe mai potuto realizzare col suo volere». Qui si coglie bene la differenza tra il punto di vista di Fichte, fermo a un ordine morale del mondo che deve essere ma non è necessariamente, e il punto di vista di Schelling il quale nella storia ritrova un effettivo e necessario attuarsi – sia destino o provvidenza della libertà stessa. Su questo punto Hegel seguirà Schelling. Nelle passioni umane, nei fini individuali che gli uomini credono di perseguire, egli vedrà soltanto le astuzie della ragione che per tale via giunge a realizzarsi effettualmente. La storia è una teodicea; prima che a Hegel l’espressione appartiene a Schelling.

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