Inconfessata per definizione, l’ipocrisia è una delle categorie polemiche più usate e abusate, ancora oggi, per denunciare il “cinismo mascherato” di certi attori sociali, soprattutto quando rivestono cariche pubbliche. Ma l’ipocrisia è stata sempre e solo questo? Dovremmo davvero diffidarne sempre e contestare ogni sua manifestazione? Quali e quante forme di ipocrisia possiamo distinguere? Quale rapporto esiste fra l’ipocrisia e la scarsa attitudine autocritica di chi è solito contestare le condotte di vita altrui? E soprattutto: quale rapporto esiste fra questo vizio comune, la politica democratica e la riproduzione istituzionale di diverse forme di oppressione e di dominio? Sono solo alcune delle domande che ispirano questo viaggio filosofico a ritroso nella storia di uno dei concetti più camaleontici della cultura occidentale. Le svolte semantiche che da Omero a Sloterdijk scandiscono questa storia sorprendente consentiranno di differenziare diverse accezioni del fenomeno: dall’ipocrisia psicologica di chi dissimula la propria personalità per proteggersi dall’aggressività altrui al narcisismo etico di chi tradisce sistematicamente le qualità professate, passando attraverso diverse manifestazioni di opportunismo auto-indulgente e di moralismo ipocrita. Al termine di questo viaggio, ci si soffermerà sulle forme contemporanee di ipocrisia democratica per analizzare criticamente le “messinscene apologetiche” che gli attori istituzionali sono soliti utilizzare per immunizzare se stessi, il loro operato e le istituzioni che rappresentano, dalle rivendicazioni egualitarie di cittadini e cittadine che contestano diverse forme di violenza e di dominio.
Ipocrisia: il più desiderabile dei vizi democratici?
In un’epoca come la nostra, in cui la realtà ha superato l’immaginazione utopica cantata da John Lennon e davvero “non c’è più nulla per cui valga la pena uccidere o morire”, vivere in un “mondo dove nessuno si preoccupa di ammantare nella retorica umanitaria la propria spietatezza” è una situazione estrema che, per la sua rara pericolosità, è di gran lunga più riconoscibile e, con ogni probabilità, meno desiderabile rispetto all’eventualità di azzuffarsi “con una gang di educati elitisti egualitari che nascondono le proprie ambizioni dietro nobili ideali”.
Nei rari casi in cui l’ipocrisia sia stata indagata dalla teoria sociale e politica contemporanea, questa ovvia constatazione ha ispirato la rivalutazione di uno dei “vizi comuni” più detestati dal Cristianesimo in avanti, sino a farne addirittura una vera e propria virtù politica per le democrazie costituzionali. In questa direzione si sono mosse le interpretazioni più e meno recenti dell’ipocrisia politica, alternativamente concepita come un vizio inevitabile delle democrazie costituzionali, una virtù civilizzatrice o un’arte politica da rigettare soltanto quando viene praticata da sedicenti anti-ipocriti. Secondo Judith Shklar l’ipocrisia sarebbe uno dei migliori anticorpi a disposizione delle democrazie liberali per proteggere i loro cittadini dalla minaccia liberticida della crudeltà e della violenza istituzionali tipiche di regimi dispotici fondati sul principio della paura. Oltre a essere preferibile rispetto alla crudeltà, secondo la filosofa politica il vizio comune dell’ipocrisia sarebbe ineliminabile dalla politica democratica. Altri autori considerano questo surplus di ipocrisia uno dei pregi principali delle istituzioni democratiche, perché attesterebbe la persistente rilevanza di certi valori e, soprattutto, l’interesse del soggetto a mostrarsi rispettoso nei loro confronti: come scrive Ruth Grant, «l’ipocrisia può ricorrere dove le persone tentano di apparire migliori di ciò che sono».