Quando morì, a Zurigo, il 14 agosto 1994, Elias Canetti lasciò a lungo increduli amici e conoscenti. Il premio Nobel per la letteratura aveva infatti dedicato tutta la vita al tentativo di sconfiggere la morte attraverso il potere salvifico della scrittura. Suoi compagni, in questa missione impossibile, furono la lingua tedesca, il vizio di ascoltare le voci dei contemporanei, l’abilità nel decifrare alcuni dei fenomeni più enigmatici del Novecento con immagini capaci di “afferrare il secolo alla gola”. Tracce affascinanti di questa guerra solitaria attraversano il suo unico romanzo, i drammi teatrali, i quaderni di appunti, i saggi e quella che Canetti stesso definì l’opera della sua vita: Massa e potere. Questa Introduzione restituisce al lettore tutta la ricchezza della produzione letteraria, autobiografica, saggistica, aforistica e drammaturgica di un grande intellettuale indisciplinato.
La missione dello scrittore
Nel corso del Novecento fu la massificazione di un’esperienza intrinsecamente individuale come la morte a prendere il sopravvento su ogni altro frammento della realtà. Se la morte di massa non può non rappresentare la principale ossessione di uno scrittore nato nel XX secolo, questa esperienza limite non poteva essere addomesticata ricorrendo a spiegazioni accomodanti e consolatrici, come invece era capitato a Lev Tolstoj negli ultimi anni della sua vita:
per me è molto doloroso constatare che un uomo, il quale penetra e rifiuta spietatamente il potere in ogni sua forma, guerra, tribunale, governo, denaro […] stipuli una sorta di patto con la morte che per lungo tempo ha temuto. Per uno sviante itinerario religioso, egli s’avvicina alla morte e si inganna su di essa tanto a lungo da essere infine capace di adularla. In tal modo riesce a dimenticare gran parte della sua angoscia dinanzi alla morte. La accetta con l’intelletto, come se fosse un bene morale. Si esercita a osservarla tranquillamente quando muoiono le persone che gli sono più care.
Ogni tentativo di sdrammatizzare la portata del fenomeno non rappresenta altro che una forma di cinismo di maniera con cui alleviare la tragica consapevolezza della finitezza della vita e, più o meno intenzionalmente, accettare e giustificare le sue mortificazioni quotidiane. Prendere sul serio la morte, per converso, significa fare lo stesso con la vita, lasciando senza risposta le domande intorno a ciò che attenderebbe l’uomo dopo la sua fine: «Ogni risposta è una scappatoia che non tiene conto della morte, è così che viene elusa la morte e la sua incomprensibilità. Se dopo c’è qualcosa, come qualcosa c’era prima, la morte in quanto tale perde il suo peso». Il silenzio serbato da Canetti a proposito di un’eventuale sopravvivenza ultraterrena consente di restituire alla vita tutta l’importanza che merita e di rifiutare ogni forma di umiliazione terrena: «Ogni valore viene così spostato sulla vita; alla vita viene restituito quel tanto di serietà e di splendore che gli uomini le avevano sottratto, trasferendo di là dalla morte buona parte, e forse la parte migliore, della loro forza. In tal modo la vita resta interamente ciò che è, e anche la morte rimane intatta; vita e morte non sono permutabili né confrontabili, non si mescolano fra loro, restano diverse».