Cos’hanno in comune le nuove biotecnologie, la geoingegneria, i mercati del carbonio, il potenziamento umano, l’intelligenza artificiale? Dietro la varietà di tecniche e di ambiti applicativi si cela l’unione apparentemente incongrua di razionalità e imprevedibilità: piegare il mondo alla propria volontà non mediante il suo disciplinamento ma grazie alla crescente indeterminazione dei processi; trarre vantaggio da turbolenza e disordine; porsi in sella all’incontrollabile per farsene trasportare.
Il libro mette a fuoco questa logica elusiva ricostruendone la genealogia e rilevandone la coincidenza con la razionalità di governo neoliberale, dove i dualismi tradizionali (natura/tecnica, materia/linguaggio, vivente/inanimato, realtà/cognizione, attivo/passivo ecc.) sono sempre più destituiti. Per i “nuovi materialismi” – punta avanzata della teoria sociale – queste polarità supportavano forme di dominio su umani e non umani. Ma che fare se l’anti-dualismo è asservito a un potere sempre più pervasivo che asseconda le minacce ecologiche invece di contrastarle? Il libro cerca una risposta nell’irriducibilità del reale alla sua descrizione, della natura a mero ambiente, trovando in Adorno e nel concetto di forma di vita una chiave teorica, e nell’attivismo prefigurativo un campo di esperienze promettenti.
Uno dei concetti di maggior rilevanza, tra i numerosi sviluppati da Michel Foucault, è quello di dispositivo. Un dispositivo, egli dice, è composto da un insieme eterogeneo di elementi – oggetti, tecnologie, assetti istituzionali, norme formali e informali, testi, discorsi ecc. – al fine di modellare e convogliare i rapporti di forza. Questi elementi possono essere in parte architettati deliberatamente da specifici attori, ma è l’effetto complessivo – anche imprevisto – che si determina dal loro coagularsi in un dato contesto sociale ciò che conta. Riprendendo Foucault, Agamben definisce dispositivo qualunque cosa abbia la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare discorsi, opinioni, comportamenti. Per quanto i dispositivi possano avere aspetti propriamente costrittivi (norme di legge, per esempio, oppure organigrammi aziendali o di enti pubblici), il loro scopo precipuo è ciò che Foucault intende per governo: la «condotta delle condotte»; l’influsso sui comportamenti per i quali è possibile una libera scelta. È la capacità persuasiva, la forza veridittiva, l’attribuzione alla situazione di un dato senso e di un orientamento sul da farsi ciò che conta massimamente al riguardo.
Uno sviluppo in questa direzione del concetto di dispositivo è offerto da Foucault stesso quando, nel periodo finale della sua vita, torna più volte sulla distinzione tra due posture intellettuali che egli considera molto diverse. La prima è la “storia delle idee”: volgendosi all’indietro, alla luce di ciò che si sa, si analizzano errori, fraintendimenti, correzioni e miglioramenti dei sistemi di pensiero apparsi in precedenza. La seconda è la “storia critica del pensiero”, cui iscrive il proprio stesso lavoro. Oggetto di questa storia sono le condizioni di possibilità dell’emergere di problemi e delle relative risposte che caratterizzano un dato periodo storico. Queste condizioni, che Foucault chiama “problematizzazioni”, sono legate a processi sociali, economici o politici, che «possono esistere e svolgere la loro azione per un tempo molto lungo» prima di tradursi in sistemi di pensiero. Mentre la prima postura, che Foucault chiama “analitica della verità” ed è propria di una grande tradizione filosofica occidentale, svolge un’analisi delle condizioni che permettono l’accesso alla verità, la seconda, che Foucault chiama “tradizione critica”, si interessa a «come e perché certe cose (comportamenti, fenomeni, processi) sono diventate un problema», e quali risposte sono parse possibili e ragionevoli. Invece di chiedersi come si realizza una conoscenza vera e quali progressi il sapere attuale ha fatto rispetto al passato, ci si domanda cosa sia la realtà presente, quale sia il campo attuale delle esperienze possibili. In tal modo si svolge «quella che si potrebbe chiamare un’ontologia del presente, della realtà attuale, un’ontologia della modernità, un’ontologia di noi stessi». Anziché «la storia della verità, o la storia dell’errore, o la storia delle ideologie», si prova a fare una storia dei «regimi di veridizione».