In un gioco di attrazione e repulsione, la filosofia, nel corso del Novecento, ha variamente dialogato con la psicoanalisi, sia freudiana che lacaniana. Più che dialogare, o ipotizzare delle ibridazioni più o meno feconde, si tratterebbe però di accogliere la psicoanalisi in seno alla filosofia riconoscendone l’assoluta estraneità, prendendo cioè sul serio il fatto che la psicoanalisi è una “scienza senza sapere”. In virtù di tale rispecchiamento nel suo altro, il sapere filosofico acquista la possibilità di vedere la macchia cieca che lo abita quando esso articola la questione della fondazione.
In questo libro la posta in gioco è data proprio dalla necessità di un rilancio della fondazione trascendentale che mostri, nel suo farsi, il carattere infondato del gesto che interroga le condizioni di possibilità del pensabile.
Porre la questione dell’insegnamento offre una via abbastanza promettente per affrontare il rapporto tra filosofia e psicoanalisi senza dover guardarsi di continuo dal rischio, quasi onnipresente nella storia degli incontri tra i due saperi, di sottoporre l’una allo sguardo critico dell’altra, a seconda del punto di vista dal quale si parte per formulare il proprio discorso. Vi è infatti un dato fenomenologico imprescindibile, che permette di accomunare questi due saperi: sia la psicoanalisi che la filosofia sono saperi che si trasmettono, nel senso che entrambi sono saperi che porsperano in funzione del proprio essere trasmessi. In realtà, tutti i saperi godono della proprietà di essere trasmissibili. Un sapere che si sottraesse alla tradizionalizzazione negherebbe il proprio ruolo di discorso che istituisce enunciati veri sul mondo. Anche opinioni e credenze possono trasmettersi di generazione in generazione – si pensi al potere che esercita sulle nostre strutture del sentire il senso comune, veicolo di credenze ma anche luogo dove le credenze condivise possono modificarsi. Ma la peculiarità dei saperi che si basano su teorie e modelli consiste proprio nell’aspirare ad arginare l’invadente cogenza delle credenze, ponendo se stessi come il solo contenuto alla fine veramente irrinunciabile dell’impresa pedagogica. La psicoanalisi e la filosofia sono però saperi trasmissibili in un senso ancor più forte, visto che entrambe giocano la loro efficacia nella capacità, da esse esibita e riconosciuta da terzi, di rendere parte integrante del loro discorso la questione dell’insegnamento, la questione del posto occupato da chi enuncia la verità in rapporto alla verità stessa. A differenza dello scienziato che può, volendo, prescindere dalla storia della propria disciplina per legittimare la serie degli enunciati che costituiscono di volta in volta il suo contributo alla definizione di ciò che c’è, il filosofo e l’analista devono infatti poter rendere conto dei passi compiuti entro il proprio discorso attraverso un rimando costante alla serie dei presupposti in esso operanti, pena l’impossibilità di una legittimazione ultima della verità del discorso stesso. Essenziale è il fatto che questi presupposti hanno una storia, che si lega a catene di nomi. Tali presupposti sono pensabili solo come un lascito che viene ereditato, come qualcosa che riceviamo da qualcuno che è nato prima di noi e ora non è più. Il sapere del filosofo e quello dell’analista, posto che si assomiglino, hanno in comune dunque una certa familiarità con la genealogia, intesa come elencazione della serie degli antenati. Nelle diverse modalità di questa elencazione si gioca il rapporto tra filosofia e psicoanalisi, mentre nella possibilità che si rinunci ad acquisire una conoscenza circa l’origine della catena generazionale si gioca per entrambe la possibilità di costituire, paradossalmente, un sapere pedagogicamente rilevante, utile alla formazione dei cittadini e delle cittadine. Non intendo far segno, qui di seguito, ad altro che alla peculiarità di questa rinuncia e al carattere provocatorio che potrebbe avere una paideia basata su di essa.