A chi lavora come consulente nella scuola vengono chieste soluzioni pratiche: un bambino con difficoltà di apprendimento deve poter imparare, una classe bloccata dai conflitti deve essere rimessa in condizioni di funzionare, un inserimento difficile deve essere facilitato e reso possibile. Se questi problemi vengono affrontati in modo tecnico, mimando la metodologia della scienza, e se le componenti della scuola vengono trattate come variabili di un’equazione, le soluzioni che ne risultano sono in genere inconsistenti. L’esperienza descritta nel libro è quella di uno psicoanalista che porta “l’inconscio in classe”, che fa valere cioè la soggettività delle persone, bambini, insegnanti, genitori, nella complessa rete di relazioni che si creano, che non appaiono mai “in chiaro” e vanno decodificate. Il modo di lavorare adottato in questa singolare esperienza è presentato, insieme alle riflessioni teoriche che se ne possono trarre, in diversi frammenti clinici e di osservazione. Particolare risalto ha l’ampia esposizione del caso con cui il libro si conclude, che dà un significativo contributo all’attuale dibattito sull’autismo: fuori dalla falsa alternativa tra un riduzionismo biologico (causalità genetica) e uno psicologico (madri frigorifero) l’autismo appare come la condizione di un soggetto preso in un intreccio in cui l’Altro perde la propria distanza simbolica traducendosi in un “no” nel reale.
Lo strano fenomeno dell’incomprensione
Per entrare più a fondo nel fenomeno della comprensione occorre mettere in luce il carattere di ostacolo in cui il reale – il muro da penetrare con il trapano – si presenta nell’esperienza soggettiva. L’esperienza della psicoanalisi insegna che il modo migliore per affrontare l’ostacolo non è tentare di toglierlo di mezzo, ma piuttosto di plasmarlo, volgerlo all’utile, renderlo fecondo. Nel rapporto con il sapere questo aspetto prende particolare risalto. Il punto di vista classico da cui la psicoanalisi ha affrontato il problema della comprensione è attraverso l’argomento delle interferenze, o del reciproco rinforzo, tra la sfera della sessualità e quella intellettuale. È un punto di vista fondamentale, che può però risultare troppo schematico, e occorre farne apparire tutti i risvolti nelle esigenze pragmatiche dettate da quel che va sotto il nome di insuccesso scolastico. Consideriamo quel che viene comunemente chiamato ritardo mentale da un lato, e le difficoltà d’apprendimento dall’altro, fenomeni evidentemente molto diversi tra loro per la gravità e per l’ampiezza d’invalidazione con cui colpiscono il soggetto.
Il ritardo mentale, secondo la definizione dell’American Association for Mental Retardation, viene diagnosticato in base a tre criteri: a) la presenza del disturbo prima dei diciotto anni di età; b) un quoziente intellettivo inferiore a 70, 75; c) la presenza di una limitazione in almeno due aree di abilità d’adattamento. Queste aree comprendono: comunicazione, cura di sé, gestione della casa, abilità sociali, tempo libero, salute e sicurezza personale, autodeterminazione, scuola, lavoro. Il ritardo mentale ha quindi un carattere invalidante globale, limita lo sviluppo complessivo della personalità, e in particolare riduce il potenziale intellettivo nel suo insieme.
Le difficoltà di apprendimento riguardano invece alcune aree specifiche, toccano il linguaggio, parlato o scritto, la capacità di comprensione dell’aritmetica e di calcolo, e si manifestano con difficoltà di ragionamento, di organizzazione del pensiero, di memorizzazione delle informazioni e delle istruzioni. Caratteristico in questi casi è il grande divario tra la scarsa capacità di realizzazione nelle aree specifiche, e il sufficiente o a volte buon livello d’intelligenza generale.