Il quadro della moralità offerto da Jankélévitch è mosso da forti chiaroscuri. Agire bene o male è un’esperienza umana originaria, che coinvolge l’intera esistenza nella forma dell’intermittenza, della caduta e del rilancio, è perenne scontro di essere e dovere, purezza di cuore e amore, e insieme incapacità di distinguere il bene dal male, ansia di assoluto e sua eclissi.
Il paradosso della morale, ultima opera pubblicata in vita da Jankélévitch – alla quale è legittimo attribuire un carattere di sintesi della sua visione etica – è interamente occupata da un lavoro sulla contraddizione. La vita morale e la sua fondamentale ambivalenza vengono descritte, analizzate e problematizzate all’insegna delle vicende, sempre diverse e imprevedibili, della contraddizione che sta nel cuore dell’etica. «Paradosso» è «la contraddizione professata», la contraddizione che, a causa dell’inevitabile collocarsi all’interno della dinamica temporale, si sdoppia, si esaspera fino all’iperbole e deflagra o si diluisce fino a neutralizzarsi. La sua configurazione conclusiva sarà la compresenza degli opposti nel corpo e nel suo carattere di organo-ostacolo, definito «contraddizione congelata, impietrita, pietrificata».
Vivere per l’altro
Nel foro intimo della vita morale c’è una contraddizione segreta che il tran-tran della continuità e della intermediarità quotidiane lascia emergere di rado, ma che esplode di quando in quando all’apice incandescente delle situazioni tragiche. Questa contraddizione interna e, quasi sempre invisibile, possiamo formularla mediante un doppio assioma che è al tempo stesso un’evidenza indimostrabile e il colmo del non-senso, che è insomma un impossibile-necessario: vivere per te, vivere per te fino a morirne, morte compresa.
Questo dilemma del tutto-o-niente, che è nel sacrificio iperbolico l’ultimatum irrazionale per eccellenza, al limite e in via di principio sfocia in un’esigenza assurda ed esorbitante. Esigenza – sembra – puramente gratuita… Vivere per te, vivere per te fino a morirne – questi due paradossi formano insieme un solo e identico imperativo: giacché l’offerta che si fa a qualcuno quando si vive per lui, fino in fondo, senza riservarsi niente per se stessi, sacrificandogli tutto, implica che si consenta tacitamente a morire per questo qualcuno, e al posto suo, se tale è la condizione della sua sopravvivenza. Questo imperativo al tempo stesso duplice e semplice esige da me non già una risposta platonica, ma un atto; io sono personalmente interessato, insistentemente interpellato dalla drastica urgenza di una richiesta in cui s’impegna immediatamente e appassionatamente l’intera mia vita.