Carmelo Vigna, Il frammento e l’Intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere

Ma è poi vero che l’ultima cifra del senso dell’essere è il ‘frammento che siamo’? No, è subito da rispondere; non è per nulla vero. Questo libro ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (cioè di ‘dimostrare’) l’impossibilità che il ‘frammento che siamo’, cioè poi il ‘finito’, sia l’ultima parola intorno al senso dell’essere; e ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (‘dimostrare’) che ciò che finito non è, sta ontologicamente oltre il finito. Ne è il fondamento di senso e ne è il fondamento d’essere. In altri termini, il ‘frammento che siamo’ implica necessariamente l’Intero o la totalità dell’essere, ma come altro da sé. La prima battuta è contro l’esito più accreditato della contemporaneità (la ‘finitezza’), la seconda battuta è contro l’esito più accreditato della modernità (l’‘immanenza’). Tanto la posizione del semplice finito, che sarebbe dunque finito da nulla, e che dunque intenderebbe valere come infinito (se le parole hanno ancora un senso), quanto la posizione di un infinito che è solo tempo o storia e che dunque non può fuoriuscire dalla finitudine, sono la posizione di una evidente autocontraddizione. Come questo non venga da molti avvertito nella sua essenziale semplicità, è uno dei grandi misteri della cultura occidentale più recente. Il visibile, a quanto pare, ci ha sedotti. Testimoniare invece la grandezza e la realtà dell’invisibile è stato sempre il compito d’onore della tradizione metafisica, almeno da Parmenide in avanti. Contribuire un poco a questo compito è il piccolo privilegio che l’autore ha sempre rivendicato per sé.

Nessun commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

X